Adattarsi al riscaldamento climatico, ora, subito!
Fonte immagine Doing climate adaptation better – Development Matters (oecd-development-matters.org)
Ufficio Policy Focsiv – Gli affanni quotidiani e un po’ di indifferenza, le guerre, le questioni sociali, la sindrome dello struzzo, gli interessi delle grandi imprese che prima di passare alle rinnovabili vogliono monetizzare tutti gli investimenti fatti nel carbonio, un po’ di negazionismo e la necessità di rallentare la transizione con i suoi costi perché i nostri politici hanno bisogno del consenso oggi e non domani, insomma tutto questo guazzabuglio di cose fa sì che non si riconosca l’urgenza di trasformare la nostra economia e stili di vita. Di mitigazione se ne fa troppo poca, e quindi non ci resta che adattarci. Ma anche i piani di adattamento sono assai scarsi e ci rendono impotenti di fronte ai disastri provocati dal riscaldamento climatico. Mentre aumentano i costi del non adattamento, soprattutto per le comunità più vulnerabili.
Ospitiamo qui un nuovo articolo di Mario Carmelo Cirillo, già direttore del Dipartimento per la Valutazione dell’ISPRA, sulla necessità di mobilitarsi per chiedere una politica vera europea solidale per l’adattamento a casa nostra e per i popoli che più stanno soffrendo dell’ingiustizia climatica.
“Le persone che non sanno che cosa rischiano a non accettare quel che la vita gli assegna, quella che essa gli pone come problema e compito, quando impegnano tutta la loro volontà per risparmiarsi il dolore e la sofferenza di cui sono debitori alla propria natura, negano il loro tributo alla vita e proprio per questo vengono portati fuori strada dalla vita stessa. Se non vogliamo immergerci nel nostro destino al suo posto subentra un’altra sofferenza, si sviluppa una nevrosi, e ritengo che la vita che dobbiamo vivere sia meno peggio di una nevrosi. Se proprio devo soffrire sia almeno della mia realtà, una nevrosi è molto più dannata, in generale, una difficoltà pretestuosa, una speranza inconscia di ingannare la vita, di eludere qualcosa.”
Queste parole di C. G. Jung valgono non solo per i singoli, ma anche per le società. Per il bene comune bisogna dire la verità, anche se è molto sgradevole. E bisogna guardarla in faccia. Se non accade si paga un prezzo salatissimo: penso alle disuguaglianze, al debito pubblico, alle guerre in Ucraina e Palestina, ai migranti, all’intelligenza artificiale, al clima, e potrei continuare. È sul clima che mi voglio concentrare.
A marzo scorso è stato pubblicato lo State of the Global Climate 2023 dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM). Il rapporto ha confermato che il 2023 è stato l’anno più caldo mai registrato nei 174 anni di osservazione, con una temperatura media globale di 1,45 ºC sopra il valore preindustriale. «Non siamo mai stati così vicini al limite di 1,5 ºC previsto dall’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici», ha dichiarato il Segretario generale dell’OMM Celeste Saulo, «la comunità OMM sta lanciando l’allarme rosso al mondo». 1,5 ºC viene considerato l’aumento di temperatura media globale che, se superato, comporterà eventi estremi più frequenti e catastrofici, tali che le misure di adattamento per evitare o almeno mitigare i danni sarebbero più difficili da attuare. Nel 2023 il contenuto di calore dell’oceano ha raggiunto il livello più alto mai registrato. I tassi di riscaldamento e il concomitante decremento del tenore di ossigeno, insieme all’aumento di acidità della superficie dei mari dovuta all’assorbimento di CO2, procedono a una velocità inconcepibile senza emissioni antropiche, che non dà tempo agli organismi di adattarsi, e con un cambiamento irreversibile su scale di secoli e millenni. E la vita sulla terra dipende da quella del mare, che ospita il 98% delle specie del pianeta.
A fronte di quanto sopra, mi sembra ovvio che ridurre le emissioni di gas serra sia la cosa più sensata. Chi decide delle sorti dell’umanità non la pensa così: secondo il Global Carbon Budget 2023, elaborato dal Global Carbon Project, comunità globale di scienziati con lo scopo di pervenire a stime condivise, nel 2023 le emissioni globali di CO2 sono aumentate dell’1,1% rispetto al 2022. La Cina ha incrementato le emissioni del 4%, l’India dell’8,4%.
Concentrazioni in atmosfera di CO2 così alte non c’erano sulla terra da milioni di anni: una cosa mai vista, dato che i sapiens compaiono due-trecentomila anni fa. Poi c’è chi afferma che non c’è problema, che i cambiamenti climatici ci sono sempre stati, magari pure che più CO2 nell’atmosfera fa solo un sacco di bene alle piante, e che questa ossessione di decarbonizzarci è una sciocchezza, che ci costerà un sacco di soldi a beneficio dei soliti furbi. A sostenere questo è rimasta qualche “mosca bianca”, in quanto tutta la comunità scientifica è concorde nell’attribuire una responsabilità all’uomo, come dimostra anche il Nobel per la fisica attribuito nel 2021, oltre che al nostro Giorgio Parisi per le ricerche sui sistemi complessi, al giapponese Syukuro Manabe e al tedesco Klaus Hasselmann per le ricerche su modelli climatici e riscaldamento globale. Epperò siccome qualche mosca bianca ancora c’è, e fa più rumore di migliaia di mosche nere, e più di qualche politico le presta ascolto, sul punto mi permetto di fare qualche considerazione.
È vero che i cambiamenti climatici ci sono sempre stati, le principali cause naturali sono variazioni dell’attività solare, dell’orbita terrestre intorno al Sole e grandi eruzioni vulcaniche: basti pensare ai periodi glaciali e interglaciali, ciascuno di svariate migliaia di anni. In tempi storici Annibale ha superato le Alpi anche grazie al cosiddetto “optimum climatico romano”, un periodo di clima caldo in Europa e nell’Atlantico settentrionale dal 250 a.C. al 400 d.C. circa; approssimativamente dalla metà del XIV secolo alla metà del XIX si è avuta la “piccola era glaciale”, fenomeno che ha interessato, in sequenza temporale, differenti regioni della Terra, tra cui l’Europa nel XVII secolo. Nondimeno un dato scientifico rilevante è che negli ultimi 2000 anni non si rileva alcuna evidenza di un riscaldamento – o raffreddamento – coerente a livello globale in era preindustriale. Sia l’estensione globale che la rapidità di cambiamento sono caratteristiche uniche del nostro tempo. Tra l’altro il riscaldamento recente ha invertito una lenta tendenza al raffreddamento a lungo termine. Altro elemento di rilievo è che il clima dalla seconda metà dell’800 ad oggi può essere riprodotto sulla base delle conoscenze scientifiche disponibili solo includendo gli effetti antropici, e su questo sono stati assegnati i due premi Nobel di cui sopra.
Questi i fatti. Adesso passiamo alle chiacchiere. A conclusione del G7 su clima, energia e ambiente svoltosi a Torino dal 28 al 30 aprile scorso, il quotidiano La Stampa del primo maggio riporta: “Le principali novità della “Carta di Venaria” – come l’ha definita il ministro Pichetto, in omaggio alla Reggia alle porte di Torino che ha ospitato i lavori – sono state salutate come un successo storico dai ministri dell’Ambiente del G7”. Anche la conclusione della annuale conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP 28), svoltasi dal 30 novembre al 13 dicembre 2023 a Dubai, è stata commentata con toni trionfalistici: la pagina web del Consiglio Europeo sulla COP 28 recita: “La crisi climatica va affrontata adesso. L’UE e i suoi Stati membri hanno assunto un ruolo guida nella conclusione di un accordo globale volto ad aumentare l’ambizione in materia di clima e i finanziamenti per il clima nonché a fissare nuovi obiettivi globali in materia di energia”.
Per chi ha lavorato svariati decenni su questi temi è sconfortante sentire questi refrain che nulla hanno a che fare col reale andamento delle cose. Così come non aiuta ad aumentare la consapevolezza della gente se l’esperto di turno, quando si trova in un salotto televisivo o radiofonico, alla domanda del giornalista: «Ma siamo ancora in tempo ad evitare la catastrofe climatica?» invece di dire con chiarezza che ci siamo dentro fino al collo, e l’unica è limitare i danni adattandosi, afferma che «la finestra sta per chiudersi ma non si è ancora chiusa» ecc. ecc. L’effetto di questa condiscendenza alle pressioni del cronista è vellicare il pensiero dominante della gente e di chi decide, rafforzando la sensazione che «si può tirare avanti ancora un altro po’, tanto ci penserà chi viene dopo». So bene – per esperienza personale – che dire le cose come stanno, resistere alle sollecitazioni del giornalista di turno a «vedere il bicchiere mezzo pieno» non è facile, e significa negarsi un altro accesso al salotto televisivo o radiofonico; ma almeno non ci si rende complici nel blandire un’opinione pubblica mantenendola inconsapevole dei reali rischi che si stanno correndo. Rischi connessi a una tragedia planetaria, anche se questa pantomima vista da qualche extraterrestre può apparire una farsa cosmica.
A fare le spese di questa tragedia sono soprattutto le nuove generazioni e le popolazioni del Sud del mondo, le più povere e meno difese, che risiedono in aree tra le più vulnerabili agli effetti dei cambiamenti climatici. Il clima che cambia è una causa non secondaria dei fenomeni migratori, sui quali si abbatte anche la mannaia dell’Unione Europea, allorché ai reiterati proclami di tolleranza e inclusione fanno da contrappeso politiche scellerate di esternalizzazione del controllo, soprattutto securitario, delle migrazioni. L’Italia non fa eccezione in questo, e non da oggi. È desolante constatare come in Occidente le reazioni maggiormente diffuse a un fenomeno epocale in atto da decenni, e che si prevede si intensificherà in futuro anche per i mutamenti del clima, siano politiche migratorie più restrittive e violente in palese violazione del diritto internazionale (cfr. per es. https://www.focsiv.it/dialogo-tra-lanima-del-mondo-una-migrante-e-un-passante/ ), che mostrano con sconcertante evidenza il doppio standard tipico di tanta politica dell’Occidente. Un doppio standard che, oltre ad essere biasimevole di per sé, fa perdere di credibilità e isola progressivamente dal resto del mondo.
La tragedia climatica sta impattando anche sul nostro Paese, innestato nel Mediterraneo che è un hot spot climatico, ossia un’area identificata come particolarmente vulnerabile ai cambiamenti del clima. In particolare si stanno progressivamente incrementando la desertificazione (con connessi fenomeni di siccità e carestie), i conflitti, i traffici illeciti, il terrorismo e, per l’appunto, l’emigrazione.
Questa è la situazione, e anche se c’è tanta voglia di girarsi dall’altra parte, perché «questa cosa è brutta, non la voglio vedere», come fanno i bambini, Jung ci esorta a discernere le cose come stanno e agire da subito: la differenza tra chi è consapevole del rischio e chi non lo è, spesso è il discrimine tra la vita e la morte; lo mostrano le terribili conseguenze delle tante calamità “naturali” che con frequenze e magnitudo crescenti ci colpiscono; metto “naturali” tra virgolette perché è un’ennesima menzogna che viene propalata a piene mani: l’insipienza e l’incoscienza dell’essere umano – quando non si tratta di malafede – c’è sempre.
Ciò detto, visto che sul cambiamento climatico noi singoli – ancora una volta contrariamente a quanto ci viene raccontato – possiamo fare ben poco, fino a quando le grandi lobby mondiali dei fossili continuano a dare le carte, non ci rimane che adattarci. Anche su questo non c’è da stare allegri, in quanto il Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici che, insieme ad altri volenterosi colleghi, ho esaminato un anno fa circa, è un autentico disastro ( https://www.scienzainrete.it/articolo/piano-nazionale-di-adattamento-ai-cambiamenti-climatici-le-carenze-di-piano-strategico ).
Stando così le cose, visto che le comunità locali sono di fatto lasciate in balìa di loro stesse, è bene che ci si rimbocchi le maniche per limitare i danni.
Prima di tutto bisogna acquisire la giusta consapevolezza su quello a cui stiamo andando incontro, da parte delle comunità e, soprattutto, da parte della classe politica. Purtroppo fra chi decide il pensiero dominante è che, quando la barca affonderà, ci penserà qualcun altro a salvare i naufraghi; intanto, “fin che la barca va” si procede così, e quindi avanti con politiche dissennate di cementificazione e di saccheggio dei territori. Il punto è che la barca sta già affondando: cos’altro deve ancora accadere per prenderne atto? Il fatto che i decisori lavorano con i vecchi metodi, oltre ad essere segno di mancanza di consapevolezza (quando non di malafede), è esiziale per tutti, perché siamo tutti sulla stessa barca. Se dunque chi decide ha un deficit di consapevolezza (nel migliore dei casi), deve aumentare la pressione da parte delle comunità locali in modo da colmare questo deficit, anche sostituendo gli attuali decisori incapaci con altri più consapevoli e responsabili: da noi si vota ancora e, pur con tutte le limitazioni e i condizionamenti, esercitare il diritto di voto è uno strumento per cambiare le cose. L’imminente voto europeo è più importante che mai per rafforzare la capacità di governance dell’UE, con auspicabili ricadute positive anche a livello locale e internazionale.
Poi, viste le carenze a livello nazionale, bisogna mettersi insieme a livello di area vasta, per includere sia i territori impattati che le zone dove si originano o si accentuiamo le cause di impatto (associandosi o consorziandosi o in qualsiasi altro modo) col fine di mettere in atto azioni efficaci, anche nel lungo periodo, per tutelare per quanto possibile il territorio e i cittadini dai cambiamenti del clima, anche utilizzando al meglio i finanziamenti nazionali ed europei; in particolare, rifuggendo da progetti improbabili e totalmente inutili che da decenni punteggiano il Belpaese; e parallelamente investire di più nella cooperazione per l’adattamento delle comunità vulnerabili del Sud del mondo, prendendo sul serio l’obiettivo dello 0,7% (home – campagna 070).