AMAZZONIA PERUVIANA: UNA TERRA AMBITA DA TUTTI
Simone Scicchitani, volontario in servizio civile FOCSIV a Yurimaguas – Barranquita, Perù.
Percorrendo la strada interoceanica da Tarapoto, regione San Martín, in direzione Yurimaguas, regione Loreto, si supera la Cordillera Escalera e all’improvviso si apre davanti agli occhi l’infinito llano (pianura) amazzonico, un mare verde che si perde all’orizzonte.
Nelle decine di chilometri che rimangono dall’arrivo nella pianura a Yurimaguas, ultima città raggiungibile via terra, porta d’ingresso alla Selva Amazzonica profonda, la modifica all’ecosistema originario portata dalla mano dell’uomo è evidente.
Non esiste ettaro che abbia resistito alla deforestazione e alla piantagione della monocultura della palma da olio. I suoi sostenitori affermano che questa produzione sia quella che potrà garantire un futuro dignitoso alle persone che vivono nella zona.
La storia si ripete: progetti calati dall’alto, dall’esterno, dal governo su consiglio e ausilio della Banca Mondiale e altre istituzioni internazionali. Poco importa se gran parte della produzione è in mano al Gruppo Romero, uno dei poteri economici più influenti in Perù, e ai lavoratori, molti dei quali immigrati, rimane ben poco. Al territorio non rimane nessuna ricchezza, anzi un suolo impoverito dopo anni di monocoltura alimentata e protetta con fertilizzanti e insetticidi chimici.
Tuttavia la coltivazione della palma da olio non è composta solamente da una produzione di grande scala, ci sono piccoli e medi produttori riuniti in una cooperativa che contribuiscono al degrado del suolo. A dimostrare come alcune logiche siano state ormai interiorizzate dal mondo contadino. Il commercio della legna è un’altra delle cause principali della deforestazione, così come l’attività petrolifera causa inquinamento diffuso.
Il problema del disboscamento ha come ulteriore causa la forte e disordinata immigrazione colonizzatrice che sta vivendo la selva amazzonica da decenni a questa parte. Nella miriade di comunità ubicate sulle sponde dei vari fiumi che solcano la zona, una sparuta minoranza di persone ha origini locali, la maggior parte proviene dalla vicina regione di San Martín, ma anche da altre regioni tanto della Sierra (la catena andina) quanto della costa.
Immigrazione totalmente disordinata, con una legge che non regola minimamente la dinamica, anzi la incentiva promettendo di regolarizzare chiunque colonizzi terre vergini dimostrando di lavorarci (il disboscamento è una prova del fatto che una persona è attiva su quelle terre), con i tempi biblici della burocrazia che accrescono l’incertezza giuridica sul suolo amazzonico.
Il lavoro della Pastorale della Terra, un’area del Vicariato apostolico (diocesi) di Yurimaguas s’inserisce in questo contesto. L’obiettivo di fondo è quello della promozione della persona, del contadino nello specifico, in un processo di liberazione da tutte le forme di oppressione presenti: economiche, culturali, ambientali e così via.
Il progetto è articolato in diverse aree d’intervento che hanno come obiettivo specifico quello di sviluppare la sicurezza giuridica e quella alimentare, al fine di evitare la deforestazione e offrire un’alternativa economica alla monocoltura e al commercio di legna. Così l’area legale cerca di risolvere i conflitti legati alla terra, quella di ordinamento territoriale di far riconoscere giuridicamente le comunità, quella di produzione di stimolare un modello agroforestale caratterizzato da una diversificazione della produzione, quella di organizzazione di sviluppare le organizzazioni presenti per avere maggior incidenza politica e quella di comunicazione di far conoscere il progetto alla società civile.
La parte “di campo” nelle comunità occupa una buona percentuale del lavoro complessivo della Pastorale, a testimoniare l’umiltà e l’adattabilità dei professionisti dell’equipe, così come il sostegno anche fisico alle persone. Ogni zona ha il suo facilitatore che svolge il ruolo di anello di collegamento tra “l’ufficio” e le comunità: è l’attore principale sulla scena, la colonna sulla quale si regge tutto il sistema, colui che svolge il lavoro sul campo in maniera continuativa.
Il progetto è totalmente autonomo da qualsiasi tipo di istituzioni e finanziamenti locali (la fonte di finanziamento è la Conferenza Episcopale Tedesca), con le quali il contatto è continuo e non sempre positivo. Il punto di forza del progetto è però quello di muoversi in base alle necessità delle comunità, coscienti che in primis le persone hanno bisogno di mangiare più che di curare un bosco vergine. La direzione è quindi quella di riuscire a sfruttare le risorse in maniera armoniosa, sviluppando il modello agroforestale in successione, diversi tipi di coltura in una parcella: dalle coltivazioni annuali più piccole e che vanno poco in profondità con le radici ad alberi da legna con una vita quarantennale. Si cerca di riprodurre un ecosistema simile a quello della foresta per mantenere la fertilità del suolo ed evitare malattie, presenti nelle monocolture.
Si cerca di far capire di quanto sia importante, anche da un punto di vista produttivo e quindi di necessità materiali, avere un ambiente sano e ricco di biodiversità. In sostanza la forza sta nell’unire l’interesse particolare, personale a quello generale, globale direi, di difendere il polmone del nostro mondo. Coscienti che gran parte delle responsabilità ricadono sul mondo occidentale e le pressioni maggiori dovrebbero svolgersi proprio lì. Chissà se il mondo contadino potrà continuare a far respirare il nostro pianeta, nonostante l’interesse dei grandi poteri economici.