CASA HOGAR
Johao, Danny, Manuel, Edison, Kevin, Paùl, Carlos, Victor, William sono solo alcuni dei ragazzi “speciali” di Santo Domingo. Con loro ho condiviso un anno della mia vita. Con loro ho riso, scherzato, discusso, parlato, conoscendo le loro storie.
Ho conosciuto le storie di tanti ragazzini e la realtà di una città problematica, conosciuta per il suo degrado e la sua pericolosità, piena di contraddizioni, con una nomea difficile da eradicare, ma dove non manca la voglia di cambiare e la speranza delle persone di un futuro migliore.
Edison ha 14 anni, occhi scuri e capelli neri sempre lucidi di gel, è allegro e sorridente. Gli piace la musica e ballare la salsa e il merengue. Il suo sogno è quello di diventare un modello e sfilare in passerella. La sua identità sessuale è equivoca e a tratti sembra nascondere una doppia personalità. A volte, senza crederci troppo, dice che la sua città é la piú bella dell’Ecuador, altre volte la odia: “ Qui rapiscono bambini in continuazione – dice –Santo Domingo é pericolosa, questa cittá é una merda”. Sua madre é una prostituta che da anni fa uso di droga, ora ha lasciato la città per curarsi entrando in una comunità per tossicodipendenti. Suo figlio probabilmente resterà alla Casa Hogar de Jesus fino a quando non diventerá maggiorenne e dovrá andarsene in base alle leggi dello stato.
Matìas ha 7 anni, 3 fratelli e non sa chi sia suo padre. Parla uno spagnolo ancora incerto, gli piace osservare le formiche che vanno avanti e indietro per il giardino, ne raccoglie qualcuna, se la lascia camminare sul braccio e poi la uccide schiacciandola. Dice di sentire pena per i bambini poveri senza sapere che é in affido perché sua madre non riesce a trovare un lavoro per mantenerli.
Carlos è stato portato a Casa Hogar dalla polizia che lo ha tolto alla madre per maltrattamenti. E’ arrivato con lividi in tutto il corpo e una cicatrice sul volto, dopo che era stato picchiato con un cavo elettrico. Ha 11 anni ma pensava di averne 9. Col tempo ha smussato il temperamento aggressivo e perso l’aria strafottente dei primi giorni. Per impressionare gli altri diceva che suo padre faceva il sicario per conto di pericolosi criminali. E’ stata dura per gli educatori del centro fargli accettare le regole di convivenza e calmare il suo carattere ribelle e istintivo. E’ già scappato una volta dall’istituto per tornare nel quartiere povero dove viveva e dove sua madre lo ha picchiato di nuovo facendogli accettare la sua nuova dimora.
William è il più irrequieto di tutti. Nonostante i castighi rifiuta qualunque norma di comportamento e ignora cosa sia l’ubbidienza e molte volte il rispetto, non ha cura di niente, neanche di sé stesso. Non é raro vederlo camminare scalzo, coi vestiti sudici e il viso sporco e ferito. E’ scappato piú di una volta dal centro e inganna il suo tutore simulando di prendere le pastiglie che lo psichiatra gli ha prescritto. Per farlo ragionare lo hanno anche rinchiuso da solo in uno stanzone al buio per ore, si é sfogato rompendo a pugni la finestra ferendosi a una mano. I suoi genitori naturali lo hanno rifiutato e poi è stato tolto a quelli adottivi. Per far sí che non scappasse il patrigno gli aveva legato a una gamba una catena di quelle con cui si legano i cani.
La Casa Hogar de Jesus fu fondata il 6 gennaio 1987 dal sacerdote tedesco Paul Fink, per tutti Padre Pablo. All’inizio era Casa de los niños trabajadores, pochi anni più tardi si è trasformata in centro di accoglienza per minori di età. Al momento la Casa può accogliere 30 fra bambini e adolescenti, di età compresa fra i 2 e i 16 anni. Secondo le norme, i ragazzi ospitati nell’istituto devono lasciarlo al compimento dei 18 anni. Da lí dovranno cercare una sistemazione e un lavoro che li mantenga. La fondazione lavora anche su questo cercando un impiego per quelli che se ne vanno. Nel cassetto c’é anche il progetto di comprare un terreno dove costruire una fattoria che dia loro lavoro come agricoltori.
I bambini e ragazzi che arrivano qui sono stati sottratti alle loro famiglie di origine o adottive a causa di abbandono e di indigenza, di maltrattamenti fisici o di crescita in contesti violenti o degradati. Nessuno di loro ha ricevuto una vera educazione o avuto genitori in grado di accudirli come si dovrebbe. La maggior parte non ha avuto un’alimentazione adeguata nei primi anni di vita. Entrano all’ etá di 10, 11 anni e il piú delle volte non sanno neppure scrivere il proprio nome o addirittura non ricordano il loro cognome. Praticamente analfabeti. All’arrivo nel Hogar iniziano per la prima volta a dover sottostare a delle regole che, all’inizio, mal digeriscono. E’ nella loro natura essere ribelli, scontrosi, a volte cinici. Prima per loro c’era solo la strada da dove vengono presi e condotti dalla Polizia all’istituto. Smettono di essere ‘niños de la calle’ e da quel momento non gli manca nulla. Né cure, né educazione, andranno a scuola e smetteranno con le abitudini di strada. Non gli mancherà affetto né tanto meno cibo che a volte, invece, gli sarà mancato. Staranno lontani dalla droga e dalla delinquenza comune.
Gli adolescenti frequentano il colegio, i piú piccoli vengono accolti in tre diverse scuole gestite dalla stessa fondazione dei Padri Scolopi. In una di queste sono raggruppati quelli piú problematici, in termini di condotta e di preparazione scolastica. Sono dodici, di differente etá e livello di istruzione, vanno dai 6 ai 14 anni. Con loro bisogna essere molto pazienti, pronti a ricevere qualche insulto e abituarsi alle mancanze di rispetto. A volte ti pestano un piede e ti dicono qualcosa di poco simpatico, a volte minacciano di prenderti a pietrate. Ma con loro si impara a non dare troppo peso a questo. E’ quasi normale. Bisogna abituarsi a ragionare come fanno loro e quello che non deve mai mancare é la comprensione, senza scemare nel puro buonismo ma solo prendere coscienza della loro situazione di partenza e provare a immedesimarsi per un attimo in uno di loro.
I loro progressi a scuola sono lenti ma, se sostenuti da un sufficiente desiderio di apprendere, sono costanti. Fargli recuperare tutto il tempo perduto é impresa difficilissima, per questo non frequentano la stessa classe dei loro coetanei. Il loro posto é l’aula di “inclusione” dove seguono un percorso adattato al loro livello ad handicap. Questo gli permette di avanzare gradualmente e in maniera piú idonea ma allo stesso tempo li tiene lontano da tutte le compagnie che normalmente alla loro età potrebbero avere. Per i più piccoli è difficile fare amicizia con altri, quando subentra la forte timidezza che non pensi possano nascondere, a volte sono gli occhi diversi con cui altri bambini li guardano, altre semplicemente le differenze già grandi a quell’età con chi non ha vissuto la loro stessa situazione. La cosa più ardua è convincerli della necessità di sforzarsi, di faticare per ottenere qualcosa e dell’importanza dello studio. Si stufano facilmente, è impossibile pretendere che si concentrino per più di mezz’ora in una qualsiasi attività scolastica, se la portano a termine si aspettano subito una ricompensa. Studiano perchè glielo si impone non perchè ne capiscono l’utilità. Ci sono giorni complicati dove le grandi differenze tra il tuo e il loro modo di pensare e reagire si scontrano. Capita a volte che il tuo sforzo sembri sempre troppo poco, inutile, che il tuo scopo nel progetto non risulti chiaro, ma poi ti rendi conto che se metti impegno in quello che fai, ciò produce sempre un risultato positivo per quanto piccolo.
A tratti viene fuori il loro carattere violento e aggressivo, che si tenta di correggere con l’educazione. In altri momenti di tranquillità, se riesci a ottenere una buona base di fiducia, sanno darti parole d’affetto e amicizia, che gli restituiscono l’aspetto ingenuo tipico dei ragazzini di quell’età. Alcuni si stancano delle regole, dicono con rabbia di rimpiangere la vita di strada, quella dura che li rende così particolari ma che, a volte, per loro sarebbe meglio che continuare a obbedire a un educatore. Non so immaginare la vita di strada di tanti ragazzini, troppo diverse l’ infanzia e l’ adolescenza che io ho vissuto.
Tra loro si creano gerarchie particolari, tacite per lo più. Tutti a loro modo si fanno rispettare e, in fondo, si rispettano, alcuni sanno essere protettivi verso altri senza darlo a vedere troppo. Tra i giovani dell’Hogar si crea un senso di appartenenza al gruppo e tendono a distinguersi dagli altri in ogni occasione. Tutti loro però non si rendono conto realmente di cosa sarebbe la loro giovinezza senza Casa Hogar e quanto l’istituzione gli offra e faccia per loro. Non hanno consapevolezza della loro situazione. Sottovalutano le cure degli educatori ma sono molto comprensivi e indulgenti con i loro genitori assenti. Ognuno di loro, se ce ne fosse anche solo una piccola speranza, vorrebbe tornare a casa. Nonostante tutto, il loro desiderio è tornare a vivere con la madre o con il padre.
E’ strano, non hanno rabbia nei confronti del genitore che li ha abbandonati o che non è stato in grado di crescerli come ragazzi normali, alcuni non si chiedono neanche il vero perchè della loro presenza a Casa Hogar o forse non vogliono saperlo. Vogliono solo tornare a casa loro.
Ho vissuto 11 mesi lavorando alla Casa Hogar de Jesus di Santo Domingo. Lì ho conosciuto le storie di tanti ragazzini e la realtà di una città problematica, conosciuta per il suo degrado e la sua pericolosità. La città, lentamente, cerca di affrancarsi da un passato molto buio. Tanti giovanissimi condividono la stessa infelice sorte, in tanti però lavorano ogni giorno per contrastare il fenomeno dell’abbandono dei minori e per aiutare le famiglie povere del territorio. Sono quattro gli istituti che accolgono i minori di età del territorio in situazione di rischio: la Casa Hogar è uno di questi. Ed è solo per ‘varones’.
All’inizio della mia avventura ero preoccupato del fatto che non mi accettassero, pensavo che non avrebbero permesso di avvicinarmi. Paure infondate. L’affetto di alcuni è stato immediato, gratuito, con altri ci è voluto più tempo ma c’è sempre spazio per conoscerli meglio. Attraverso di loro ho potuto misurarmi con la difficile situazione di tanti giovani e giovanissimi dell’Ecuador, operando ogni giorno per offrire il meglio che si poteva nel supportarli, educarli e prendersi cura di loro. Un’esperienza faticosa e formativa. Ora che li ho salutati, vorrei sapere cosa ne sarà di loro. Se torneranno con i familiari, se resteranno nell’istituto, se proveranno ad andarsene. Ma il difficile è immaginarli quando saranno ormai cresciuti e per loro la Casa Hogar sarà un ricordo. Qualunque cosa faranno o dove saranno, per me tutti loro rimarranno, appunto, ragazzi speciali.
Paolo Chiappini, Casco Bianco FOCSIV a Santo Domingo de Los Colorados, Ecuador.