Cibo BUONO! per tutti: l’accesso al cibo nutriente per una società più giusta
Intervento Focsiv, Andrea Stocchiero Policy Officer, in occasione dell’evento Cibo Buono!Storie italiane di agricoltura, territori e cibo sostenibili, tenutosi lo scorso 24-25 giugno a cura di makerfairerome.eu, in vista del Pre- Summit sui sistemi alimentari.
- L’accesso per tutti al cibo nutriente dipende da due fattori indispensabili.
Il primo è l’esistenza di politiche per la protezione sociale. A questo proposito in un recente meeting del C20 sul tema sicurezza alimentare, il rappresentante speciale dell’ONU sulle povertà estreme Oliver de Shutter ha presentato la proposta dell’Organizzazione Internazionale per il Lavoro, per la creazione di un Fondo globale di protezione sociale universale per oltre 1,5 miliardi di poveri che non hanno accesso ad un cibo nutriente. Le risorse esistono così come gli strumenti, quello che manca è la volontà politica, nonostante tutti i proclami e la retorica ufficiale espressa durante la pandemia del Covid-19 a favore del “non lasciare indietro nessuno”.
Il secondo fattore è la produzione e disponibilità di cibo vicina ai più poveri e vulnerabili. Qui occorre riconoscere il ruolo fondamentale dei contadini, in particolare nel sud del mondo, dove sono i principali produttori per le popolazioni locali. Il loro ruolo di produttori essenziali per il cibo per tutti è legato al loro diritto alla terra, che però è sempre più in pericolo per operazioni di accaparramento, di land grabbing.
Crescono, infatti, i conflitti tra grandi e piccoli produttori, e rispetto ad altri interessi economici sulla terra, come la produzione di biocarburanti, le estrazioni di minerali, le piantagioni, senza dimenticare le speculazioni finanziarie. Negli ultimi venti anni è cresciuto il neocolonialismo di grandi attori economici e politici, dalle multinazionali ai fondi sovrani, alla finanza speculativa, per competere su risorse naturali sempre più scarse. Si tratta di un modello economico che fagocita e depriva terra e uomini, che tratta tutto come merce e mezzi di produzione per la generazione di denaro, e non crea diritti e sviluppo sostenibile.
Una delle questioni fondamentali di ogni società è da sempre il controllo di un mezzo di produzione fondamentale e finito, la terra, che però non è solo un mezzo: è un mondo di vita per i popoli e la sua biodiversità. Per la rigenerazione della vita.
Per questo la Focsiv pubblica da 4 anni il Rapporto Padroni della Terra, a fianco di movimenti popolari e popoli indigeni. I cosiddetti ultimi. Ricordiamo a questo proposito le esortazioni di Papa Francesco.
“Gli ultimi in generale «praticano quella solidarietà tanto speciale che esiste fra quanti soffrono, tra i poveri, e che la nostra civiltà sembra aver dimenticato, o quantomeno ha molta voglia di dimenticare. Solidarietà è una parola che non sempre piace; direi che alcune volte l’abbiamo trasformata in una cattiva parola, non si può dire; ma è una parola che esprime molto più che alcuni atti di generosità sporadici. È pensare e agire in termini di comunità, di priorità della vita di tutti sull’appropriazione dei beni da parte di alcuni. È anche lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi. È far fronte agli effetti distruttori dell’Impero del denaro […]. La solidarietà, intesa nel suo senso più profondo, è un modo di fare la storia, ed è questo che fanno i movimenti popolari». (Fratelli tutti, Francesco, 116).
E ancora:
“È indispensabile prestare speciale attenzione alle comunità aborigene con le loro tradizioni culturali. Non sono una semplice minoranza tra le altre, ma piuttosto devono diventare i principali interlocutori, soprattutto nel momento in cui si procede con grandi progetti che interessano i loro spazi. Per loro, infatti, la terra non è un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati che in essa riposano, uno spazio sacro con il quale hanno il bisogno di interagire per alimentare la loro identità e i loro valori. Quando rimangono nei loro territori, sono quelli che meglio se ne prendono cura. Tuttavia, in diverse parti del mondo, sono oggetto di pressioni affinché abbandonino le loro terre e le lascino libere per progetti estrattivi, agricoli o di allevamento che non prestano attenzione al degrado della natura e della cultura.” (Laudato Sì, Francesco, 136)
Secondo i dati raccolti dalla banca dati LandMatrix, nel 2020 il numero dei contratti conclusi è arrivato a 2.384 per una superficie totale di 93,2 milioni di ettari (più della superficie di Germania e Francia assieme). La maggior parte della terra acquistata o in affitto è in America Latina (31), seguono l’Africa (30) e l’Europa orientale (19), Asia e Oceania (13).
I principali usi della terra riguardano l’estrazione mineraria per oltre 25 milioni ettari, lo sfruttamento delle foreste per 18 milioni di ettari, e le piantagioni per 8,5 milioni di ettari, seguono distanziate le colture alimentari per 5,6 milioni ettari.
Le classifiche dei principali Paesi investitori e Paesi cosiddetti “bersaglio”, ovvero oggetto degli investimenti, confermano le informazioni raccolte negli anni precedenti.
I principali Paesi investitori continuano a essere i Paesi occidentali (dal Canada – 11 milioni di ettari – al Belgio -4-, passando naturalmente per gli Stati Uniti -9,5- e la Gran Bretagna -9,2-), con la Cina (primo investitore con oltre 14 milioni di ettari occupati), Singapore -5,3- , il Giappone -3,3- e l’India -2,4-.
I contratti coinvolgono soprattutto una decina di Paesi bersaglio: dal Perù per circa 16,2 milioni di ettari (soprattutto per l’estrazione di minerali), alla Federazione Russa per 15 milioni di ettari (dei quali la metà di investitori cinesi), dall’Indonesia -4- al Brasile -5,3-, fino ai diversi paesi impoveriti africani, ricchissimi di risorse naturali, foreste, terre fertili e minerali: Congo -9,3-, Mozambico e Sud Sudan rispettivamente intorno a 3 milioni di ettari ciascuno.
A questo processo di deprivazione della terra si oppone la resistenza dei movimenti contadini e dei popoli indigeni che portano avanti un modello di vita più consapevole e olistico. E a questo riguardo facciamo riferimento al movimento agroecologico.
- L’ agroecologia è una serie di principi e di pratiche che migliorano la resilienza e la sostenibilità dei sistemi alimentari e agricoli preservando al tempo stesso l’integrità sociale; un movimento sociopolitico che si concentra sull’ applicazione pratica dell’agroecologia, e che cerca nuovi modi di considerare l’agricoltura, la lavorazione, la distribuzione e il consumo di prodotti alimentari, e i suoi rapporti con la società e la natura. Un approccio di ricerca scientifica che implica uno studio olistico degli agrosistemi e dei sistemi alimentari.
L’agroecologia è un concetto onnicomprensivo relativo alla sfera ambientale, socio-culturale, economica e politica della nostra società. Implica un modo di produrre, distribuire e consumare cibo, oltre a sviluppare politiche alimentari che tengano conto dell’uguaglianza, solidarietà, democrazia, empowerment ed ecologia. Insomma non solo tecnocrazia e produttivismo ma equilibrio tra i pilastri dello sviluppo sostenibile, quello sociale, ambientale ed economico.
Le pratiche mostrano gli impatti positivi dell’agroecologia: l’aumento della resilienza ai cambiamenti climatici, la promozione della fiducia e della solidarietà nelle relazioni consumatore-produttore, il sostegno alle economie locali, la possibilità per i piccoli produttori di partecipare alla definizione delle politiche nazionali e l’emancipazione delle donne.
Grazie alla sua inclusività, uno dei tanti vantaggi dell’agroecologia come movimento sociale è l’impatto positivo sulle donne quali attori sociali e agenti di cambiamento. Non solo riconosce e sostiene il ruolo delle donne nell’agricoltura, ma ne incoraggia attivamente la partecipazione e la leadership nella vita e nello sviluppo della comunità nel suo complesso.
Ricordiamo a tal proposito alcuni elementi della dimensione politica:
1 L’agroecologia dà priorità ai bisogni e agli interessi dei piccoli agricoltori che rappresentano la prima e più importante fonte di produzione alimentare a livello mondiale, e riduce l’enfasi sugli interessi dei grandi sistemi alimentari e agricoli.
2 L’agroecologia pone il controllo delle sementi, la biodiversità, la terra e i territori, le acque, la conoscenza, i terreni nelle mani delle popolazioni che fanno parte del sistema alimentare, e in questo modo assicura una gestione delle risorse più integrata.
3 L’agroecologia può cambiare i rapporti di potere incoraggiando una più grande partecipazione dei produttori alimentari nel processo decisionale riguardante i sistemi alimentari e propone nuove strutture di governance.
4 L’agroecologia richiede una serie di politiche pubbliche complementari e di sostegno, responsabili politici e istituzioni che la sostengano, come anche investimenti pubblici per realizzare il suo pieno potenziale.
5 L’agrogeologia incoraggia forme di organizzazione sociale necessarie per una governance decentrata, e una gestione locale che meglio si adatti ai sistemi agricoli e alimentari. Inoltre incentiva l’autorganizzazione e l’azione collettiva di gruppi e reti su scale diverse, dal locale al globale (organizzazioni agricole, consumatori, organizzazioni di ricerca, istituti…)
- Infine, rispetto a quello che sta accadendo con l’accaparramento delle terre e rispetto al movimento agroecologico, esprimiamo la preoccupazione della società civile sul prossimo Vertice sui sistemi alimentari, perché risulta influenzato dal settore privato e un attacco alla governance del Comitato Mondiale per la Sicurezza Alimentare e alla voce dei contadini e dei popoli indigeni.
Il vertice così come è stato impostato è squilibrato a favore delle grandi multinazionali della filiera del cibo, mentre poco spazio è dedicato ai movimenti sociali dei contadini e ai popoli indigeni. L’impostazione è molto tecnocratica, sebbene “verde”, e non mette al centro i diritti dei contadini e degli indigeni, e l’esigenza di trasformare i modelli imprenditoriali di carattere estrattivo.
Affrontare le questioni delle asimmetrie di potere, della concentrazione corporativa e dell’azione dei popoli è fondamentale per garantire la trasformazione dei sistemi alimentari. Il multistakeholderismo, come viene praticato nel Vertice, e attraverso il memorandum d’intesa firmato dal Segretario Generale dell’ONU e dal World Economic Forum (WEF), tenta di minare questo modello e permette agli attori corporativi di esercitare un’influenza indebita nella definizione delle politiche pubbliche, anche all’ONU, mentre portare avanti la “cattura aziendale” dei sistemi alimentari a tutti i livelli.
Il Vertice presenta criticità molto serie che non sono sfuggite all’attenzione degli addetti ai lavori, ivi inclusi analisti del mondo accademico internazionale, ma sembrano essere sottostimate dalla autorità politiche, incluse quelle italiane.
Tra gli aspetti più inquietanti riscontriamo in particolare un chiaro tentativo di creare, attraverso il processo di preparazione di questo Vertice, nuovi spazi di governance sui temi del cibo. In una incomprensibile alleanza con il settore privato, sia corporate che filantropico, alcuni organi delle Nazioni Unite – pur in assenza di decisioni intergovernative in tale direzione – hanno avviato un percorso che di fatto calpesta, marginalizza e sostituisce gli spazi istituzionali codificati nelle sedi multilaterali ed i relativi processi democratici ottenuti in decenni di lotta, dialogo e partecipazione attiva da parte della società civile, incluse le organizzazioni di piccoli produttori.
Il Vertice è stato concepito dal settore privato (WEF) con alcuni scienziati ed economisti, senza tenere conto del principale organismo democratico di dialogo sui sistemi alimentari: il Comitato mondiale per la sicurezza alimentare (CFS) delle Nazioni Unite. Dove già sono presenti i diversi portatori di interesse. Il Comitato è stato invitato a partecipare al Vertice solo a Novembre dell’anno scorso a giochi già fatti. Questa non è democrazia del cibo.
L’approccio multi stakeholder non è democratico, mette tutti formalmente sullo stesso piano, quando invece gli interessi privati hanno più potere di influenza rispetto ai portatori di diritti fondamentali come i popoli indigeni e i movimenti dei contadini. Questi ultimi dovrebbe essere posti prima e su un livello più alto rispetto ai grandi interessi privati. Il multistakeholderismo è iniquo e contrario alla tutela dei diritti umani dei più deboli e vulnerabili. Il multistakeholderismo continua a rafforzare l’asimmetria dei poteri contro i principi dello sviluppo sostenibile.
Il gruppo di collegamento del Meccanismo della Società Civile ha informato l’ONU della decisione presa di organizzare contro-eventi intorno al Pre-Summit di luglio. Il corso politico del processo indipendente della società civile continuerà a sfidare il Vertice, a promuovere la sovranità alimentare e la trasformazione radicale dei sistemi alimentari corporativi, nel senso dell’agroecologia e della difesa del diritto alla terra, a difendere il CFS e a sostenere il mandato dei diritti umani delle Nazioni Unite.
Guarda il video dell’intervento dal minuto 14:20