Conflitto in Ucraina: quale ruolo per le imprese e per la normativa dell’Unione Europea?
(immagine da Vecteezy)
Volentieri pubblichiamo il seguente articolo apparso nel quadro della campagna Impresa2030 (Home – Impresa 2030) e con riferimento al progetto Volti delle Migrazioni – FOCSIV. Articolo che mostra come sia necessario sostenere l’adozione della direttiva Europea sulla dovuta diligenza per rendere le imprese responsabili rispetto al fenomeno della tratta di esseri umani che rischia di coinvolgere anche i profughi ucraini, fenomeno che peraltro già esisteva in questo paese.
“A più di un mese dall’inizio del conflitto in Ucraina, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati ha stimato almeno 2 milioni di sfollati interni, circa 13 milioni di persone direttamente colpite dagli effetti della guerra e 3,4 milioni di persone fuggite dal Paese. Tuttavia, il confronto con queste cifre richiede di tenere ben presente che l’impatto della guerra, nei fatti, non è stato per tutti uguale. Invero, già nel corso dei primi giorni di conflitto, anche in Ucraina sono stati registrati episodi di razzismo ai danni dei cittadini di colore in fuga, mentre è emersa la presenza di ostacoli all’ottenimento dei documenti necessari a lasciare il paese da parte delle persone ucraine transgender.
Tale scenario diventa ancora più drammatico alla luce delle dichiarazioni della Commissaria europea per gli affari interni. Il 23 marzo scorso, Ylva Johansson ha lanciato un nuovo allarme concernente l’enorme rischio che le persone vulnerabili cadano vittime di istanze di tratta.
Il rapporto tra imprese e tratta e il problema della vulnerabilità
Ai sensi dell’art. 4 della Convenzione sull’azione contro la tratta di esseri umani adottata in seno al Consiglio d’Europa nel 2005, la tratta riguarda infatti “il reclutamento, il trasporto, il trasferimento (…) tramite l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di altre forme di coercizione (…) per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento”. Tale definizione riprende in pieno quella rinvenuta all’art. 2 della Direttiva 2011/36/UE concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime e traccia i confini di una vera e propria piaga la cui incidenza è direttamente proporzionale al grado di vulnerabilità che caratterizza un determinato soggetto: tra le vittime più ricorrenti figurano sicuramente i minori e le donne, con particolare riferimento alle donne migranti.
Questo dato, in combinato con le stime dell’UNHCR sopracitate, consente sicuramente di comprendere la drammaticità della situazione attuale. Invero, in un contesto delicatissimo come quello ucraino, i soggetti vulnerabili richiamati poc’anzi (donne, minori e persone transgender) corrono il reale rischio di perdere la propria capacità di scelta.
La Direttiva 2011/36/UE è d’altronde molto chiara su questo punto: una posizione di vulnerabilità è una situazione in cui una persona non abbia altra scelta se non cedere all’abuso di cui è vittima.
Quella del traffico di esseri umani è tuttavia una minaccia che affliggeva l’Ucraina ancor prima dello scoppio del conflitto. Nel Report Concerning the Implementation of the Council of Europe Convention on Action against Trafficking in Human Beings by Ukraine, elaborato dal Group of Experts on Action against Traffiking in Human Beings (GRETA) del Consiglio d’Europa e pubblicato il 22 novembre 2018, si evidenziava come l’Ucraina fosse un paese di origine delle vittime di tratta, sfruttate sia all’estero che all’interno del paese. Nel periodo di analisi considerato (2014 – 2017) la maggior parte delle vittime sono state trafficate a scopo di sfruttamento lavorativo e sessuale. Tali vittime venivano principalmente prelevate tra gli sfollati causati dagli scontri armati in Crimea e nelle regioni di Donetsk e Luhans’k del 2014, tra le persone colpite dalla disoccupazione e tra i bambini di strada.
Già nel 2018, dunque, il GRETA evidenziava come in tale contesto fosse crescente la responsabilità delle imprese fornitrici di servizi di intermediazione per offerte occupazionali all’estero e come fosse cruciale il coinvolgimento delle imprese nel contrasto del fenomeno all’interno del Paese, con una particolare preoccupazione registrata per il settore agricolo nella regione del Kherson.
Il traffico di esseri umani rappresenta infatti uno degli illeciti più pervasivi e remunerativi presenti sul panorama internazionale e in quanto tale è frequentemente riconducibile alle attività di impresa, con particolare riferimento ai processi connessi alla gestione della catena di approvvigionamento o supply chain management. In termini generali le fondamenta di tale relazione, spesso addirittura di carattere collaterale, vanno dunque ricercate nella catena del valore delle imprese.
Nei fatti le imprese fanno uso delle catene di approvvigionamento per rifornirsi delle risorse e materie prime necessarie all’espletamento della propria funzione. Ancora, tramite contratti di subappalto ed esternalizzazione o outsourcing, esse ne usufruiscono per potersi avvalere di costi di manodopera esponenzialmente minori al fine di aumentare il proprio grado di produttività ed efficienza. Tale prassi, particolarmente rilevante non solo per il citato settore agricolo ma anche nel caso del settore alimentare e del fashion, comporta naturalmente l’assunzione da parte delle imprese di un certo grado di rischio di contribuire o partecipare, anche inconsapevolmente, ad attività connesse alla tratta di esseri umani.
Secondo le stime dell’ILO, circa 21 dei 25 milioni di persone vittime di lavoro forzato sono a loro volta vittime di tratta. In più, il 58% delle persone coinvolte in istanze di lavoro forzato sono donne e ragazze.
A questa evidenza bisogna poi affiancare la circostanza per cui le policies interne in materia di diritti umani e i codici di condotta a carico dei fornitori adottati dalle imprese sono spesso di portata generale e formalista: per un reale contributo alla lotta contro violazioni gravi e pervasive quali la tratta, sarebbe necessario un approccio deciso, olistico e consapevole. È dunque imperativo procedere tenendo conto delle caratteristiche specifiche dei contesti sociali in cui le imprese operano, da esaminare in relazione alle scelte strategiche di queste ultime. Naturalmente, un contesto afflitto da operazioni e scontri militari finisce per tramutarsi in un vero e proprio propulsore per l’incidenza di violazioni gravi e sistematiche dei diritti umani.
Alla luce della recrudescenza del conflitto in Ucraina ci si domanda pertanto quale ruolo giochi l’attività di impresa in questa area di conflitto e quali siano le norme rilevanti in materia a livello unionale.
L’Unione Europea e la Due diligence delle imprese in aree di conflitto
Come evidenziato da Marco Fasciglione, ricercatore di diritto internazionale e tutela dei diritti umani del CNR (cfr. Il Caso Ucraina e l’applicazione dei principi guida su imprese e diritti umani alle zone di conflitto), l’obiettivo principale dei Principi Guida in contesti di guerra è quello di evitare che le imprese che operano in aree di conflitto come in Ucraina ne siano coinvolte. In tali contesti occorre in primo luogo evitare che le imprese si rendano complici delle violazioni dei diritti umani o del diritto internazionale umanitario e che quest’ultime traggano vantaggio dalle violazioni dei diritti umani compiute da terzi.
Seguendo la logica dei Principi Guida, il rischio di gravi violazioni dei diritti umani è esponenzialmente più elevato nelle zone di conflitto in Ucraina e, dunque, i processi di due diligence delle imprese (ossia l’obbligo delle imprese di adottare tutte le misure necessarie per identificare, valutare, prevenire, mitigare, cessare o porre rimedio agli effetti negativi derivanti dall’attività di impresa) andrebbero “rafforzati” al fine di accertare l’assenza di complicità in violazioni dei diritti umani che possano essere ricondotte al quadro delle operazioni militari.
Negli ultimi anni, l’Unione Europea si è attivata nel campo del complesso rapporto che intercorre tra diritti umani e impresa. In materia, l’Unione ha partecipato attivamente ad iniziative internazionali di grande rilevanza come quella del Kimberley Process, la quale ha portato ad un accordo di certificazione volto a garantire che i profitti ricavati dal commercio di diamanti non vengano usati per finanziare guerre civili. A tal proposito, come è tristemente noto, l’estrazione di minerali ha alimentato feroci conflitti nelle aree di estrazione, in particolare in Africa Centrale, anche mediante la complicità delle multinazionali. Il profitto ricavato ha peraltro permesso a gruppi di ribelli di finanziare operazioni militari che hanno condotto a terribili violazioni dei diritti umani.
Sulla scorta di tale preoccupazione, l’Unione Europea ha adottato il Regolamento (UE) 2017/821 che stabilisce obblighi in materia di dovere di diligenza nella catena di approvvigionamento per gli importatori europei di stagno, tantalio, e tungsteno e dei relativi minerali, come pure di oro, originari di zone di conflitto o ad alto rischio. Ai sensi del Regolamento, per “zona di conflitto o ad alto rischio” si intendono le zone teatro di conflitti armati, fragili in quanto reduci da conflitti o caratterizzate da una governance e una sicurezza precarie o inesistenti oppure da violazioni generalizzate e sistematiche del diritto internazionale e dei diritti umani.
Occorre però notare che tale strumento si applica solamente agli importatori dell’Unione dei minerali o metalli contenuti nell’elencazione ricordata poc’anzi (e dunque stagno, tantalio, e tungsteno e i relativi minerali, unitamente all’oro). In altre parole, pur possedendo l’Ucraina il 5% delle risorse naturali globali, il Regolamento avrebbe una portata limitata in virtù della tipologia di imprese e materie prime coinvolta. Il Paese è difatti ricco di carbone e di riserve di gas e petrolio, oltre a possedere numerosi giacimenti di manganese, titanio, grafite, uranio e oro: di conseguenza, il Regolamento si applicherebbe solamente per le imprese che commerciano quest’ultima risorsa.
Un ulteriore atto unionale di rilievo è la Direttiva 2014/95/UE che integra e modifica la direttiva 2013/34/UE, relativa ai bilanci di esercizio e le relative relazioni delle imprese, introducendo la cosiddetta Dichiarazione di carattere non finanziario. Le imprese di grandi dimensioni che costituiscono enti di interesse pubblico e che, alla data di chiusura del bilancio, presentano un numero di dipendenti occupati in media durante l’esercizio pari a 500, includono nella relazione sulla gestione una Dichiarazione di carattere non finanziario contenente almeno informazioni ambientali, sociali, attinenti al personale, al rispetto dei diritti umani, alla lotta contro la corruzione attiva e passiva che siano fornite in misura necessaria alla comprensione dell’andamento dell’impresa, dei suoi risultati, della sua situazione e dell’impatto della sua attività.
La Dichiarazione in questione contiene inoltre le politiche applicate dall’impresa in merito alla procedura di dovuta diligenza, il loro risultato e i principali rischi di effetti negativi connessi all’attività di impresa stessa. Per le imprese che, al contrario, decidono di non applicare politiche di dovuta diligenza, la Dichiarazione di carattere non finanziario esplica il perché di questa scelta. In altre parole, la Direttiva 2014/95/UE non pone obblighi di due diligence per le imprese, bensì obblighi di rendicontazione e trasparenza delle proprie attività.
In cerca di un ruolo per le imprese sotto l’egida dalla normativa UE
Dalla normativa unionale fin qui descritta risulta un ruolo marginale per le imprese nel contrasto dei fenomeni di tratta. Da quanto detto, infatti, la proposta di Direttiva presentata dalla Commissione europea il 23 febbraio 2022 in materia di Corporate Sustainability e Due Diligence rappresenta un importante opportunità per stabilire obblighi in capo alle imprese in materia di Dovere di diligenza. La proposta mira a richiedere alle imprese di identificare, prevenire, mitigare, minimizzare o cessare ogni impatto negativo sui diritti umani e l’ambiente derivante dalle proprie attività economiche.
L’approvazione della Direttiva permetterebbe di completare il quadro preventivo, di identificazione e di emersione del reato di tratta, conducendo le imprese ad assumere un ruolo proattivo e trasformativo per quanto riguarda tale fenomeno. Le previsioni della proposta, almeno allo stato attuale, verrebbero rafforzate ed entrerebbero in sinergia con la Direttiva 2011/36/UE la quale comprende disposizioni che rientrerebbero nel quadro “sanzionatorio” delle imprese.
La Direttiva 2011/36/UE infatti all’art. 5 sancisce la responsabilità delle persone giuridiche ritenute responsabili dei reati di tratta commessi a proprio vantaggio, mentre all’art. 6 sancisce le sanzioni applicabili ad esse. Utilizzando il linguaggio dei Principi guida su impresa e diritti umani: se da un lato la normativa vigente sancisce gli obblighi in capo allo stato di tutelare le vittime di tratta, dall’altro l’adozione di una direttiva in materia di dovere di diligenza delle imprese contribuirebbe al perfezionamento della responsabilità delle imprese nei casi di illeciti concernenti la tratta di esseri umani.
A cura di Rainer Maria Baratti e Sabrina Izzo, Large Movements APS