Cooperare o competere?
Fonte immagine Capital Group: la riconfigurazione della globalizzazione (financialounge.com)
Ufficio Policy Focsiv – L’articolo riportato di seguito è apparso su What’s Next for Globalization? by Dani Rodrik – Project Syndicate (project-syndicate.org)* il 9 marzo 2023 a cura di Dani Rodrik** (uno degli economisti più importanti a livello internazionale). Si sottolinea la possibilità di cambiare direzione all’economia del futuro con il declino dell’iperglobalizzazione, ma anche la minaccia di una traiettoria ‘iperrealista’ in cui i costanti temuti conflitti tra le maggiori potenze (quali Cina e USA) potrebbero monopolizzare l’attenzione globale e gli sforzi degli altri paesi meno potenti a discapito di un ordine internazionale più stabile e cooperativo, nonché di una auspicata prosperità condivisa.
La politica di cooperazione allo sviluppo dovrebbe essere consapevole di queste nuove derive verso una fagocitante competizione geopolitica, che costringerebbe i paesi del Sud del mondo a schierarsi e sottomettersi ai grandi poteri vecchi ed emergenti. Derive che porterebbero in secondo piano gli obiettivi di giustizia sociale e ambientale, e a creare nuove forme di colonizzazione, a discapito della democrazia. Se la cooperazione intende impegnarsi per una reale decolonizzazione (Il Sud globale per la decolonizzazione – FOCSIV), dovrebbe chiedere maggiore coerenza alle politiche industriali e commerciali per uno sviluppo sostenibile e condiviso (Rapporto “Per una maggiore e migliore coerenza delle politiche in Italia” – FOCSIV).Così come dovrebbe essere sostenuto con maggiore vigore il multilateralismo (La crisi del multilateralismo, occidente e paesi impoveriti più divisi – FOCSIV) per scongiurare le derive peggiori della competizione geopolitica, considerato che oramai si parla normalmente di una possibile guerra tra USA e Cina, mentre si sta combattendo quella con la Russia.
Qual è il futuro della globalizzazione?
Con l’iperglobalizzazione in declino, il mondo ha l’opportunità di rimediare agli errori del neoliberismo e costruire un ordine internazionale basato su una visione di prosperità condivisa. Ma, per farlo, dobbiamo impedire alle istituzioni che sono centrata sulla sicurezza nazionale delle maggiori potenze mondiali di dirottare la narrazione.
La narrazione che sostiene l’attuale sistema economico globale è nel bel mezzo di un colpo di scena trasformativo. Dalla fine della seconda guerra mondiale, il cosiddetto ordine internazionale liberale si è basato sul libero flusso di beni, capitali e finanza, ma questa disposizione ora sembra sempre più anacronistica.
Ogni ordine di mercato è supportato da narrazioni: storie che ci raccontiamo su come funziona il sistema. Ciò è particolarmente vero per l’economia globale, perché, a differenza dei singoli paesi, il mondo non ha un governo centrale che agisca da legislatore e garante. Nel loro insieme, queste narrazioni aiutano a creare e sostenere le norme che mantengono il funzionamento del sistema in modo ordinato, dicendo ai governi cosa dovrebbero e non dovrebbero fare. E, quando interiorizzate, queste norme sostengono i mercati globali in modi che le leggi internazionali, i trattati commerciali e le istituzioni multilaterali non possono fare.
Le narrazioni globali sono cambiate numerose volte nel corso della storia. Sotto il gold standard(sistema aureo, ndt) della fine del diciannovesimo secolo, l’economia globale era vista come un sistema autoregolante e autoequilibrante in cui la stabilità si raggiungeva meglio quando i governi non interferivano. La libera circolazione dei capitali, il libero commercio e rigide politiche macroeconomiche, si pensava, avrebbero ottenuto i migliori risultati per l’economia mondiale e per i singoli paesi.
Il crollo del gold standard, insieme alla Grande Depressione, ha intaccato in modo significativo questa narrazionedei mercati liberi. Il regime di Bretton Woods emerso dopo la seconda guerra mondiale, che si basava sulla gestione macroeconomica keynesiana per stabilizzare l’economia globale, ha conferito allo Stato un ruolo molto più importante. Solo un forte stato sociale poteva fornire un’assicurazione sociale e sostenere coloro che erano caduti nelle crepe dell’economia di mercato.
Il sistema di Bretton Woods ha anche modificato il rapporto tra interessi nazionali e globali. L’economia mondiale, costruita su un modello di integrazione, si pensava servisse gli obiettivi di garantire la piena occupazione domestica e stabilire società eque. Grazie ai controlli sui capitali ea un regime commerciale internazionale permissivo, i paesi potevano creare istituzioni sociali ed economiche che si adattavano alle loro preferenze e necessità nazionali.
La narrazioneneoliberista dell’iperglobalizzazione che è diventata dominante negli anni ’90, preferendo una profonda integrazione economica e il libero flusso della finanza, è stata per molti versi un ritorno alla narrazionedel gold standard dei mercati liberie autoregolanti. Tuttavia, ha riconosciuto un ruolo fondamentale per i governi: far rispettare le regole specifiche che hanno reso il mondo sicuro per le grandi aziende e le grandi banche.
I vantaggi dei mercati liberi dovevano estendersi oltre l’economia. I guadagni economici dell’iperglobalizzazione, credevano i neoliberisti, avrebbero aiutato a porre fine ai conflitti internazionali ea potenziare le forze democratiche in tutto il mondo, specialmente nei paesi comunisti come la Cina. La narrazionedell’iperglobalizzazione non ha negato l’importanza dell’equità sociale, della protezione ambientale e della sicurezza nazionale, né ha contestato la responsabilità dei governi di perseguirli. Ma presupponeva che questi obiettivi potessero essere raggiunti attraverso strumenti politici che non interferissero con il libero scambio e la finanza. In poche parole, poteva essere possibile avere la botte piena e la moglie ubriaca. E se i risultati sono stati deludenti, come si sono rivelati, la colpa non è stata dell’iperglobalizzazione, ma dell’assenza di politiche complementari e di sostegno in altri settori.
L’iperglobalizzazione, in ritirata a partire dalla crisi finanziaria del 2008, alla fine è fallita perché non è riuscita a superare le sue contraddizioni intrinseche. In definitiva, è improbabile che i governi che hanno dato alle grandi imprese il potere di scrivere la narrazione persuadano gli autori di quella narrazione a sostenere le agende sociali e ambientali nazionali.
Mentre il mondo abbandona l’iperglobalizzazione, ciò che la sostituirà rimane altamente incerto. Un quadro di politica economica emergente, che io ho chiamato “produttivismo“, sottolinea il ruolo dei governi nell’affrontare la disuguaglianza, la salute pubblica e la transizione verso l’energia pulita. Mettendo questi obiettivi trascurati in primo piano, il produttivismo riafferma le priorità politiche interne senza essere ostile a un’economia mondiale aperta. Il regime di Bretton Woods ha dimostrato che le politiche che sostengono economie nazionali coese aiutano anche a promuovere il commercio internazionale ei flussi di capitali a lungo termine.
Un altro paradigma emergente potrebbe essere chiamato iperrealismo, dalla scuola “realista” delle relazioni internazionali. Questa narrazione sottolinea la rivalità geopolitica tra Stati Uniti e Cina e applica una logica a somma zero alle relazioni economiche tra le maggiori potenze. Il quadro iperrealista vede l’interdipendenza economica non come una fonte di guadagno reciproco ma come un’arma che potrebbe essere brandita per paralizzare i propri avversari, come hanno fatto gli Stati Uniti quando hanno utilizzato i controlli sulle esportazioni per impedire alle aziende cinesi di accedere ai semiconduttori avanzati e alle attrezzature per fabbricarli.
Il futuro percorso dell’economia mondiale dipenderà dal modo in cui questi quadri politici concorrenti agiranno da soli e l’uno contro l’altro. Data la sovrapposizione delle due direzioni quando si tratta di commercio, molto probabilmente i governi adotteranno un approccio più protezionistico nei prossimi anni e sempre più il reshoring (la rilocalizzazione, ndt.), così come altre politiche industriali che promuovono la produzione avanzata. I governi probabilmente adotteranno anche politiche più ecologiche che favoriscono i produttori nazionali, come l’InflationReductionAct degli Stati Uniti, o erigeranno barriere al confine, come fa l’Unione Europea attraverso il suo meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (Cbam-carbon borderadjustmentmechanism,ndt). Tali politiche servirebbero sia all’agenda interna che a quella estera.
Alla fine, tuttavia, le considerazioni geopolitiche molto probabilmente metteranno da parte tutte le altre considerazioni, consentendo alla narrazioneiperrealista di prevalere. Non è chiaro, ad esempio, se l’attenzione alla produzione avanzata che caratterizza l’attuale rinascita della politica industriale contribuirà molto a ridurre le disuguaglianze all’interno dei paesi, dato che è probabile che i buoni posti di lavoro del futuro provengano da industrie di servizi che hanno poco da fare con la concorrenza contro la Cina.
Consentire alle istituzioni focalizzate sulla sicurezza nazionale delle maggiori potenze mondiali di dirottare la narrazioneeconomica, metterebbe in pericolo la stabilità globale. Il risultato potrebbe essere un mondo sempre più pericoloso in cui la minaccia sempre presente di un conflitto militare tra Stati Uniti e Cina costringe i paesi più piccoli a schierarsi in una lotta che non promuove i propri interessi. Abbiamo un’opportunità unica per correggere i torti dell’iperglobalizzazione e stabilire un migliore ordine internazionale basato su una visione di prosperità condivisa. Non dobbiamo lasciare che le grandi potenze lo sprechino.
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**Dani Rodrik, professore di economia politica internazionale alla Harvard Kennedy School, è presidente della International EconomicAssociation e autore di Straight Talk on Trade: Ideas for a Sane World Economy (Princeton University Press, 2017).