Decrescita: la via per una vita migliore
Ufficio Policy Focsiv – Prosegue la raccolta di riflessioni su un sistema economico diverso, più umano e custode dell’ambiente. Abbiamo già dato spazio ad esempio all’analisi dell’Agenzia Ambientale Europea in Crescita senza crescita economica – FOCSIV e a Il paradosso dell’efficienza (tecnologica) e l’importanza della sufficienza – FOCSIV che rispettivamente discutono dell’insufficienza del nuovo paradigma dell’economia circolare e della necessità di adottare modelli di produzione e consumo fondati sui concetti di sufficienza, sobrietà, decrescita, come sollecitato dall’enciclica Laudato Sì.
Oggi l’articolo di Erin Remblance[1], Jennifer Harvey Sallin[2] che proponiamo e presentato di seguito (sintetizzato e tradotto dall’inglese nella versione di resilience.org*), ripreso dall’originale pubblicato su illuminem**, offre degli spunti interessanti su quanto la cultura della crescita ad ogni costo di cui siamo imbevuti ci porti a perdere di vista i bisogni fondamentali dell’individuo e ci allontani sempre più da una vita appagante e in armonia con la natura e gli altri esseri viventi. La decrescita promuove la buona vita mentre la crescita la sta distruggendo.
L’incessante crescita economica porta davvero alla good life?
La cultura dominante di oggi considera l’incessante crescita economica come una componente necessaria della “good life”, ma è davvero così? In primo luogo, e a rischio di affermare l’ovvio, affinché la crescita economica fornisca la “good life” bisogna in primo luogo poter ricevere i benefici percepiti di quella crescita economica. Sfortunatamente, tra il 1995 e il 2021 la crescita economica globale è stata distribuita in modo incredibilmente diseguale, con l’1% più ricco che si è accaparrato il 38% della crescita della ricchezza totale, mentre il 50% più povero ha ottenuto solo il 2,3% della crescita della ricchezza complessiva. Nonostante decenni di incessante rincorsa alla crescita economica, l’85% delle persone nel mondo guadagna ancora meno di 30 dollari al giorno, che rappresenta la soglia di povertà in una tipica nazione ricca. Il 50% più povero della popolazione mondiale possiede appena il 2% della ricchezza mondiale (dati allarmanti identici negli USA, dove il 50% della popolazione detiene appena il 2% della ricchezza del Paese). La crescita economica non fornisce una “good life” per la stragrande maggioranza delle persone.
In secondo luogo, anche se potessimo in qualche modo ignorare la difficile situazione della maggior parte dell’umanità, continuiamo a farci la domanda: per quelli di noi, della piccola minoranza di persone che sembrano beneficiare della crescita economica, questa crescita ci consente davvero di vivere una “good life”? Da un punto di vista psicologico, “good life” (cioè una vita buona, significativa e appagante) si basa su tre elementi fondamentali:
• la qualità della relazione con noi stessi – il senso del significato personale, l’autostima, la capacità di prenderci cura di noi stessi
• la qualità delle relazioni con gli altri – il senso di comunità e appartenenza, la co-creatività e la rete di supporto
• come ci relazioniamo con la totalità della vita – l’interdipendenza con l’intero mondo vivente.
In questo articolo esaminiamo come essere beneficiari della crescita economica possa o meno aumentare la qualità delle relazioni e la qualità della vita, e come la decrescita possa aiutarci a recuperare le prospettive e le pratiche che portano a una vita appagante.
Il rapporto con noi stessi sotto il growthismo (la crescita ad ogni costo)
[…] Senza una relazione sana e premurosa con noi stessi, è difficile costruire una buona vita. Tuttavia, il nostro significato personale, i nostri valori e la nostra capacità di cura di noi stessi non sono produttori automatici di crescita economica e possono persino portare a perdite economiche (ad esempio quando prendiamo una pausa dal lavoro perché abbiamo bisogno di tempo per prenderci cura di noi stessi o quando scegliamo di non fare un lavoro retribuito perché siamo diventati genitori). In un paradigma dipendente dalla crescita, il fatto che la relazione con noi stessi non sia intrinsecamente redditizia per il sistema è un problema. […]
Potremmo sapere nel profondo del nostro cuore che ciò a cui teniamo è importante, ma è molto probabile che manteniamo quel significato nascosto e cerchiamo di sforzarci di trovare un significato in qualcosa che è socialmente “approvato” dal paradigma della crescita. È una reazione del tutto normale a un simile enigma, ma può avere gravi effetti collaterali. Nel tempo, non vedere i nostri valori rispecchiati e stimati, e non avere il tempo e il supporto per coltivarli, può portarci a varie forme e gradi di insicurezza, abnegazione e altre espressioni di disconnessione con il nucleo stesso di ciò che noi siamo (cioè depressione, ansia o depressione esistenziale).
Lo stesso vale per come viviamo il nostro corpo e la nostra personalità. La soddisfazione per il nostro aspetto e per chi siamo diminuisce la nostra redditività per l’economia. Nel growthismo, l’insoddisfazione per il nostro aspetto e la nostra personalità genera profitto poiché cerchiamo “soluzioni” alla nostra insoddisfazione. In questo senso, l’imperativo di crescita economica si beneficia maggiormente della nostra esistenza quando siamo costretti a vedere noi stessi e il nostro significato come “mai abbastanza” o addirittura un vero e proprio nemico della “realtà” (come definita dai bisogni dell’economia).
A tal fine, il growthismo ci prepara anche ad avere problemi fisici reali che richiedono oggettivamente soluzioni. Ad esempio, promuovendo il consumo eccessivo di cibi malsani e creando scarsità artificiale di tempo (che definiremo più dettagliatamente in seguito), per non parlare dell’aumento della tossicità dell’aria, del suolo e dell’acqua a causa di una produzione industriale non necessaria, molti di noi si ritrovano con problemi di salute legati all’ambiente – e al cosiddetto “stile di vita” – e faticano a prendersi adeguatamente cura della propria salute fisica. Ironia della sorte, i nostri problemi di salute sono in realtà “buoni” per la crescita economica, perché generano consumi ed entrate per il settore sanitario e la necessità di maggiore innovazione per risolvere i problemi che il growthismo ha creato per noi e anche dentro di noi.
Auto-relazionarsi in un quadro di decrescita
In contrasto con i dilemmi di cui sopra, la decrescita ci libera dalla necessità di trovare un significato e un reddito da attività che sono in competizione con una sana relazione con sé stessi e la cura di sé. Ad esempio, le principali politiche di decrescita includono una garanzia di posti di lavoro da parte del governo con la possibilità di includere ruoli di cura (prendersi cura della natura, dei bambini, degli anziani ecc.), un reddito minimo di base a favore dell’inclusione sociale, per coloro che non sono in grado di fare, o scelgono di non fare, lavoro retribuito, e riduzione dell’orario di lavoro a una settimana lavorativa di tre o quattro giorni, dando alle persone più tempo per fare ciò che ritengono significativo e coerente con la propria salute fisica e mentale. Le politiche di decrescita mirano anche a garantire che tutti abbiano accesso all’assistenza sanitaria universale, all’istruzione, ai trasporti pubblici di alta qualità e all’edilizia sociale, liberando dalla pressione di guadagnare soldi in un lavoro che si trova significativo ma che si fa solo per sopravvivere. […] L’idea che dovremmo “guadagnarci il diritto di essere vivi” è un costrutto relativamente recente (consiglio di lettura: The Divide, di Jason Hickel).
Man mano che le nostre economie si riadattano a un modello di decrescita emerge una maggiore necessità di lavoro qualificato e artigianale. È noto che questi tipi di lavori creano spesso uno stato di flow, un senso di appagamento definito da un equilibrio ottimale tra abilità e sfida, in cui siamo così attivamente coinvolti nel compito da svolgere che non siamo più consapevoli del tempo. […] In un paradigma lavorativo di decrescita, essere costantemente “occupati” non è visto come un distintivo d’onore né come una prova del nostro valore, come lo è nel modello dipendente dalla crescita. […] La decrescita ci consente di contemplare la vita al di fuori del paradigma culturale dominante, incoraggiandoci ad accontentarci di chi siamo, di come sembriamo e di cosa apprezziamo, e dandoci la sicurezza contestuale per vivere in un modo che sia sostenibile per noi. […]
Le relazioni con gli altri in un quadro dipendente dalla crescita
La realizzazione personale nella relazione con l’altro si basa sul senso di comunità e appartenenza, co-creatività e su una forte rete di supporto. Ancora una volta, niente di tutto ciò crea necessariamente crescita economica, e in un paradigma dipendente dalla crescita, questo è un problema. […]
Alla base di tutto ciò c’è la questione dei social commons – gli spazi e le risorse comuni che ci permetterebbero come individui di dare priorità a una vita di comunità, salute personale e relazionale e sostenibilità. Poiché i beni comuni sono stati sistematicamente privatizzati nell’ultimo secolo dall’industria e dalla proprietà terriera privata, siamo stati costretti a dare la priorità al fare reddito per riacquistare la nostra parte di “beni comuni” (vale a dire l’accesso alla terra, all’acqua, alle strade e così via). Questa privatizzazione ha creato quella che viene chiamata “scarsità artificiale” – un termine che può suonare paradossale, poiché il growthismo sembra offrire opzioni in abbondanza. Tuttavia, gli acquisti di beni comuni ora privatizzati sono incentrati sul profitto e sul consumismo piuttosto che sulla condivisione dell’abbondanza della natura e sulla priorità delle relazioni. Un risultato di questa “scarsità artificiale” è la vera “scarsità di tempo”. Spesso il sistema basato sulla crescita rende più difficile trascorrere del tempo con coloro che amiamo, perché siamo tutti troppo impegnati a lavorare per poter accedere alla nostra parte privatizzata dei beni comuni.
E poi c’è la questione della concorrenza: la limitazione delle risorse comuni disponibili ci costringe a competere gli uni con gli altri. […] Diamo quindi priorità al reddito non solo per la sussistenza, ma anche per lo status sociale. Per il growthismo, questa è una buona cosa. Il sistema ci impone di sentirci come se avessimo sempre più bisogno di cose materiali in un ciclo senza fine (senza il quale il sistema crollerebbe), ma le tensioni croniche, l’invidia e la competizione che sono inerenti a un tale sistema erodono la qualità e sostenibilità delle nostre relazioni personali.
Allo stesso tempo, il paradigma della crescita promuove paradossalmente il consumo come fonte stessa di comunità: ci viene detto che se guadagniamo abbastanza soldi per comprare i vestiti giusti, la casa, i mobili, le automobili, i viaggi e i gadget, e andiamo nei bar giusti, ristoranti e luoghi di intrattenimento, troveremo amore, appartenenza e significato. Questo, ancora una volta, si ripercuote sulla nostra relazione con noi stessi: senza tutti questi extra, il growthismo ci fa credere che non siamo degni di amore prima di tutto. La situazione è la stessa anche per chi beneficia maggiormente della privatizzazione dei beni comuni e non ha limiti di consumo, trovando anche loro particolarmente difficile creare relazioni di amore e fiducia a causa della loro stessa ricchezza. Come afferma in modo così eloquente Shaun Chamberlin, “… quello che il denaro ti permette davvero di fare è diventare dipendente da persone che non conosci invece di essere dipendente da persone che realmente conosci“.
Le relazioni con gli altri in un quadro di decrescita
L’“abbondanza radicale” della decrescita offre una via d’uscita da questa trappola espandendo nuovamente i beni comuni e ridistribuendo la ricchezza in modo che le persone abbiano accesso alle cose di cui hanno bisogno per vivere bene, senza dover stabilire priorità e competere per livelli di reddito più elevati. Questo a sua volta risolve la “scarsità artificiale di tempo” causata dal growthismo. Come descrive Jason Hickel: “Con più tempo libero le persone potrebbero divertirsi, godere della convivialità con i propri cari, collaborare con i vicini, prendersi cura di amici e parenti, cucinare cibi sani, fare esercizio fisico e godersi la natura, rendendo superflui i modelli di consumo dettati dalla scarsità di tempo.”
Due termini sono spesso usati nella letteratura sulla decrescita per descrivere le relazioni: convivialità e reciprocità. Entrambi i termini descrivono una sorta di presente in cui le nostre relazioni con gli altri sono basate sulla vita reale, l’aiuto reciproco, il senso del luogo e la cura della comunità, la gioia e il significato collettivo. Questo tipo di relazioni, che possono emergere solo nel contesto della relativa abbondanza offerta dal vivere in modo sostenibile, ci danno molto di più delle relazioni basate sulla mancanza di tempo, sulla superficialità, sul consumo forzato e sulla competizione. Abbiamo bisogno di un sistema che ci consenta di investire veramente nelle nostre relazioni e la decrescita ci offre un percorso verso tale sistema.
Il nostro rapporto con la vita intera sotto il growthismo
Non solo dipendiamo dalla nostra comunità umana, ma siamo interdipendenti con l’intero mondo vivente e la nostra qualità della vita è direttamente legata al modo in cui ci relazioniamo con il contesto più ampio che ci sostiene. Purtroppo, la visione della totalità dell’esistenza come potenziale profitto è penetrata nel tessuto stesso della nostra psiche e ha distorto il modo in cui ci relazioniamo con tutto ciò che è più grande di noi. Il cosiddetto “mondo naturale” su cui facciamo affidamento per la vita è stato mercificato e un risultato a lungo termine della mercificazione è che molti di noi faticano persino a sentire una connessione con il mondo naturale, al di fuori del suo possibile utilizzo per creare crescita.
Esiste un fenomeno nella psicologia ambientale chiamato Shifting Baseline Syndrome o Amnesia Generazionale Ambientale, che mostra come arriviamo a vedere la perdita del mondo naturale come “normale” nel corso delle generazioni. Il growthismo sfrutta questo trucco della mente presentando il nostro mondo attuale e futuro di una natura in via di estinzione come persino desiderabile o “cool” – ad esempio, dare la priorità allo sviluppo della realtà virtuale e alla colonizzazione dello Spazio rispetto alla cura e al ripristino della Terra sono mostrati come risultati naturali e salutari misure di “progresso” (e la ridefinizione della priorità della protezione della Terra sarebbe corrispondentemente poco “cool” e innaturale). Ciò ha comportato un allontanamento sociale dal dare priorità all’imparare dalla natura e al trascorrere del tempo nella natura. A questo punto, le persone, e in particolare i bambini, hanno sempre meno o nessuna idea di dove provenga il loro cibo e alcuni stanno persino sviluppando quella che viene chiamata biofobia, una paura della natura.
E poi c’è il fardello morale con cui convivono quelli di noi nelle nazioni sovrasviluppate. Che ci piaccia pensarci o no, siamo in un modo o nell’altro consapevoli che stiamo rapidamente distruggendo la terra e i suoi abitanti, compresa la maggior parte della popolazione umana (i quasi 7 miliardi nelle nazioni in via di sviluppo). All’interno di questa distruzione generale c’è l’insidioso neocolonialismo che continuiamo a perpetuare sui popoli delle nazioni soggiogate attraverso il colonialismo climatico e le continue pratiche di estrattivismo imperialista. Ancora più a livello locale, siamo consapevoli che a lungo termine stiamo distruggendo gli ecosistemi della nostra stessa bioregione che sostengono noi e i nostri vicini, la comunità, la famiglia e che sono la potenziale casa futura dei nostri figli e dei loro discendenti. Stiamo consumando in eccesso, inquinando la nostra atmosfera e il suolo e aumentando i rischi e la gravità dei disastri naturali e delle epidemie provocate dall’uomo. Questo è un enorme fardello emotivo, mentale e fisico, che ha evidenti effetti sulla nostra relazione con noi stessi e con gli altri. Molti di noi sentono comprensibilmente il bisogno di dissociarsi da questa realtà attraverso le dipendenze, ‘la lotta o la fuga’ e altri modi per anestetizzarsi; eppure, dissociarsi dal problema non lo risolve a lungo termine, nemmeno per noi stessi.
Relazionarsi alla vita intera in un quadro di decrescita
La decrescita ci consente una via d’uscita da questa disconnessione, amnesia e fardello morale, poiché è focalizzata sul riconnetterci alla terra, ai suoi ecosistemi e ai suoi abitanti e sul riparare ai nostri torti, restituendo spazio e risorse al mondo naturale, includendo la maggioranza dell’umanità, permettendo agli ecosistemi di riprendersi e dandoci limiti che ci permettono di vivere in sana reciprocità con il mondo. La decrescita è anticoloniale e antirazzista, rifiutandosi di permetterci di continuare a peggiorare le ingiustizie morali che noi nelle nazioni ricche abbiamo (spesso inconsapevolmente) scatenato. Ci costringe a riconnetterci con il mondo più vasto che ci circonda, ad abbassare i nostri “occhiali del growthismo” e guardarci intorno a dove viviamo; ci costringe a smettere di intrattenerci in fantasie di crescita abbastanza a lungo da ottenere la chiarezza per vedere, sperimentare e arrivare ad apprezzare il mondo vivente e i nostri simili in esso. Ci richiede di prenderci il tempo per conoscere, comprendere e coltivare una connessione significativa con il mondo naturale e con i nostri simili, umani e non umani. Richiede, in altre parole, una sorta di biofilia attiva, un amore per la natura. In questo senso, la decrescita facilita il nostro rapporto con il tutto. È una sorta di giustizia riparativa che ci consente di andare avanti, fare ammenda e ricostruire il nostro rapporto fondamentale con il tutto che il growthismo ha profondamente danneggiato.
Vere contro pseudo-fonti di soddisfazione
L’economista Manfred Max-Neef ha esaminato i bisogni umani attraverso una lente di sviluppo della comunità, nominando nove bisogni fondamentali: sussistenza, protezione, affetto, comprensione, partecipazione, tempo libero, creazione, identità e libertà (si noti che la ricchezza e l’accumulo di ricchezza non sono nell’elenco!). Fondamentalmente, ha differenziato tra vari tipi di “fonti di soddisfazione dei bisogni”: alcune (come una sana autostima o una sana comunità) soddisfano davvero i nostri bisogni, ma molte altre (come la ricchezza oltre i bisogni fondamentali) sono in realtà “violatrici”, “pseudo-fonti di soddisfazione” e “fonti di soddisfazione inibitrici”. Sostengono di soddisfare i nostri bisogni fondamentali, ma in realtà ci stanno rendendo più difficile farlo, ad esempio soddisfacendo eccessivamente un bisogno a scapito di un altro.
Il growthismo è pieno di questi tipi di false fonti di soddisfazione, mentre la decrescita si basa sulla coltivazione di fonti reali, e persino “sinergiche”, che soddisfano un dato bisogno fondamentale e contemporaneamente contribuiscono alla soddisfazione di altri bisogni fondamentali. Per fare un semplice esempio, riprendere le nostre strade dalle auto ci dà spazio per giocare e fare giardinaggio, migliora la qualità dell’aria e ci incoraggia a camminare e ad essere più attivi, migliorando contemporaneamente la salute, dandoci anche spazi in cui possiamo trascorrere del tempo di qualità con i vicini e connetterci con la natura.
La piccola minoranza di noi che considera positivamente l’aumento della ricchezza dalla crescita economica deve considerare seriamente se tale aumento soddisfi davvero i nostri bisogni umani, a tutti i livelli di relazione. Ci sono costi reali per la crescita incessante, e mentre l’ideologia della crescita tende a trattare quei costi come mere esternalità da ignorare o come un valido compromesso, l’erosione della nostra capacità di soddisfare i nostri bisogni umani più fondamentali non può certamente essere accettata come trascurabile o come una lontana perdita o un ragionevole compromesso.
Una rivoluzione culturale che liberi una rivoluzione dei sistemi
Nel cominciare a vedere sempre più il lato oscuro del growthismo, è tempo per noi di guardare attentamente ai valori che ci stanno a cuore – quei valori che determinano come impieghiamo il nostro tempo, a cosa diamo la priorità e cosa riteniamo importante. Dobbiamo rivolgere uno sguardo critico alla nozione di “progresso” perché qualsiasi progresso che contribuisce sistematicamente al degrado del mondo vivente e alla qualità delle relazioni che costituiscono le fondamenta del nostro benessere è sicuramente definito in modo troppo ristretto, per cominciare. Dobbiamo riconnetterci con la natura, la nostra comunità e il nostro significato e valori personali, e riconoscere che, mentre la nostra economia è un costrutto umano di relativa giovinezza ed è, per definizione, malleabile, le leggi della fisica e le fondamenta della nostra salute mentale e fisica non lo sono. Le relazioni che formano il nostro benessere devono avere la priorità rispetto al mantenimento di un sistema economico che mina proprio quelle relazioni.
Dobbiamo essere coraggiosi nel rivendicare il diritto di esistere e di relazionarci in modi che ci nutrono ma non fanno crescere l’economia. Dobbiamo credere che noi valiamo la pena, così come anche le innumerevoli altre persone e abitanti che condividono il mondo con noi. Abbiamo bisogno di una rivoluzione dei sistemi e, perché ciò accada, abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale: una nuova cultura della cura che non idolatri più il consumismo, la perfezione, la frenesia e i miliardari – false fonti di soddisfazione – ma piuttosto idolatri le cose che non solo rendono la vita “buona”, ma anche possibile, le vere fonti di soddisfazione come il suolo, acqua e aria pulite, oceani sani, le miriadi di vite sulla terra senza le quali non possiamo sopravvivere e relazioni di qualità con noi stessi e con gli altri. Il percorso verso una buona vita non è ciò che possediamo, o i luoghi in cui viaggiamo, o ciò che raggiungiamo individualmente, ma vivere in armonia con noi stessi, con il pianeta e tutti i suoi abitanti, trovare gioia nelle meraviglie della natura e nella nostra connessione con noi stessi e con gli altri. La nostra più grande speranza è che, rivalutando i nostri valori in questo modo, possiamo trovare insieme la strada per una vita ancora migliore, avviando una rivoluzione culturale che liberi la rivoluzione dei sistemi di cui abbiamo un disperato bisogno.
Articolo tratto, sintetizzato e tradotto da https://www.resilience.org/stories/2023-02-21/degrowth-the-path-to-a-better-life/*
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[1] Erin Remblance è madre di tre figli e vive a Sydney. Attualmente si occupa di riduzione del carbonio e studia le economie del benessere.
[2] Jennifer Harvey Sallin è una psicologa e leader nel campo dell’alta intelligenza e delle alte prestazioni. Applica la sua esperienza nel campo della psicologia climatica e dell’attivismo climatico. È la direttrice fondatrice di InterGifted e guida un progetto di coinvolgimento climatico chiamato I Heart Earth.