Dopo l’Isis si riparte dal lavoro: reportage da Mosul
di Emanuele Confortin – Area, 27 ottobre 2017
Sono trascorsi poco più di tre mesi da quando il primo ministro iracheno Haydar al-Abadi celebrò la liberazione di Mosul e la caduta dello Stato Islamico. «Io dichiaro da qui la fine e il fallimento dello stato terroristico della menzogna e del terrore cheDaesh aveva annunciato da
Mosul», affermava al-Abadi attorniato dai comandanti delle forze di sicurezza, con le macerie della città alle spalle. La vittoria sui jihadisti inaugurava una nuova agenda per l’Iraq, ponendo come priorità il ripristino della stabilità necessaria al ritorno di centinaia di migliaia di
rifugiati interni, in buona parte ancora sparpagliati nei campi profughi del nord dell’Iraq e del Kurdistan iracheno. (…)
Riportare Mosul alla normalità implica un lavoro massiccio, a partire dalla bonifica delle trappole esplosive nella città vecchia, a ovest del fiume Tigri. I tempi per il reinsediamento dei civili sono lunghi anche per la mancanza di infrastrutture e servizi. (…) Secondo l’Ocha gli sfollati in Iraq e Kurdistan sono ancora 3,2 milioni, ma le persone da aiutare ben 11 milioni. In molti hanno perso la casa e il lavoro, i risparmi di una vita sono finiti, qualcuno per tirare avanti si è indebitato. Bambini e ragazzi hanno sospeso gli studi a lungo, e probabilmente il vuoto educativo non sarà mai colmato. Comunità diverse provenienti dalle stesse città si sono divise, e la lontananza in tempi di guerra ha alimentato il sospetto, ha aperto faglie difficili da rinsaldare, soprattutto in mancanza di prospettive per il futuro. In questo contesto, nonostante un’esistenza precaria lontana da casa, molti uomini e donne hanno alzato la testa trovando un lavoro.
È il caso di Muhammad, siriano, musulmano sciita di 24 anni, fuggito nel 2014 poco prima che la sua Raqqa fosse conquistata dai jihadisti. (…) Per Muhammad e i cinque amici le cose vanno meglio. Sono operai e carpentieri edili con esperienza, hanno imparato a proporsi come squadra, per questo offrono garanzie maggiori rispetto ai singoli. Lavorano in team, riuscendo così a ottimizzare i tempi. Sono efficienti e
professionali, tanto basta a ottenere contratti più sicuri. Nulla di scritto, sia chiaro, ma la prospettiva di lavorare per tre settimane di fila è manna dal cielo,soprattutto se l’alternativa è il nulla. (…)
Non tutti i profughi riescono a reinventarsi come hanno fatto i carpentieri di Raqqa. «Abbiamo notato che qui nei campi gli equilibri tra uomini e donne a volte si invertono», spiega Terri Dutto, responsabile del progetto FOCSIV nel Kurdistan iracheno. «Per i maschi viene meno il ruolo di capofamiglia, non sono più la colonna del gruppo; così perdono i riferimenti che avevano nel luogo di origine e molti cadono in depressione». Per le donne spesso è il contrario. La guerra e la fuga obbligata dalle mura domestiche, la separazione dalla quotidianità della comunità allenta i confini entro i quali erano relegate. Grazie ai programmi delle organizzazioni umanitarie, al campo si creano nuove dinamiche di interazione, permettendo loro di assaporare un’emancipazione altrimenti difficile da immaginare.
A Erbil e a Kirkuk, FOCSIV organizza corsi di formazione rivolti alle donne. C’è quello per estetista e parrucchiera, oppure sartoria e cucito. «In un mese acquisiscono le nozioni di base, poi a fine corso ottengono un attestato e un kit con gli strumenti per esercitarsi o praticare la professione a casa», conclude Dutto. Tra le allieve c’è stata Sakar Galil, ragazza musulmana di 24 anni, nata e cresciuta a Kirkuk – città conquistata dall’esercito iracheno a metà ottobre, dopo tre anni di controllo curdo – divenuta responsabile dei corsi di estetista presso la sede di FOCSIVdella sua città. Imparare un mestiere per le donne di Kirkuk non è cosa da poco. L’iscrizione deve necessariamente passare per l’approvazione della famiglia. Le allieve, a partire da quelle giovani in età da marito, hanno bisogno di qualcuno che le accompagni e che le venga a prendere, di un garante, ma in cambio hanno l’occasione di uscire di casa per qualche ora, e di acquisire una certa indipendenza. Con i suoi corsi Sakar sa di offrire una prospettiva di cambiamento, di creare nuove possibilità di aggregazione per le
donne musulmane, cristiane, arabe o curde che siano. «Quando iniziamo i corsi, la prima ora la usiamo per conoscerci. Ognuno parla di sé, espone le proprie idee e questo aiuta a creare un legame che spesso si pro-
trae anche oltre le ore in aula o la durata del corso». Al termine delle lezioni molte allieve iniziano a lavorare a casa, per le donne di famiglia e per quelle del vicinato. Questo offre loro un ruolo alternativo a quello di madre, moglie e domestica. Attraverso il lavoro acquisiscono
autostima e cresce in loro la speranza nonostante le bombe, la fuga, e lo spettro di una nuova guerra che proprio da Kirkuk rischia di incendiare il Kurdistan, colpevole di aver scelto il referendum e un’indipendenza che mai come ora sembra irrealizzabile.
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