Elezioni cruciali in Congo
Fonte immagini DR Congo: days ahead ‘critical’ to ‘historic election process’ Security Council hears | UN News
Ufficio Policy Focsiv – Domani vi saranno le elezioni presidenziali nella Repubblica Democratica del Congo, un paese bellissimo, maledetto per le sue ricchezze naturali che nutrono gli interessi di grandi e piccoli poteri (Deforestazione e comunità indigene in Congo – Focsiv), con conseguenze drammatiche per la popolazione locale e conflitti senza soluzione di continuità (A quando la pace in Congo? – Focsiv).
Riprendiamo qui l’articolo Elezioni cruciali in Congo – Radio Bullets, scritto da Elena Pasquini, che illustra la situazione politica del Paese, e le attese per queste importanti elezioni.
Non ci crede nessuno, eppure non si ha il coraggio di fare della speranza un cartoccio e gettarla via. Tutti trattengono il fiato, attendono che il 20 dicembre si compia un miracolo o al limite una magia. La Repubblica democratica del Congo ha bisogno di questo, di un miracolo anche solo perché al mattino di mercoledì, si aprano i seggi per le elezioni generali che dovrebbero consegnare al paese un parlamento rinnovato, nuove assemblee provinciali e un nuovo presidente.
Elezioni al bivio
“Queste elezioni sono come un bivio. E il Congo o ce la fa o non ce la fa. È un treno che non bisogna perdere se si vuole un po’ più di pace, un po’ di prosperità”. John Mpaliza è un attivista congolese, vive in Italia da trent’anni e nel suo Paese non torna da più da dieci, ma tornare adesso sarebbe una “condanna”. Osserva da lontano, anche se lontano il Congo non è.
Dovremmo trattenerlo anche qui il fiato, nel resto del mondo che dell’ex colonia belga ha bisogno persino per respirare. La sua foresta pluviale è la seconda più estesa del pianeta, e la sua terra è uno ‘scandalo geologico’ – che nasconde ogni genere di minerale, oro, diamanti, litio, cobalto, coltan indispensabile alla transizione ecologica. Uno scandalo capace di scatenare appetiti tanto voraci da usare guerra e schiavitù per soddisfarli. “Pensiamo al cambiamento climatico. Il Congo oggi è la risposta ai problemi del mondo. Il Congo possiede tutta la materia prima [necessaria] per l’energia verde, per le macchine elettriche …. Se il Congo è in pace, il mondo intero potrà beneficiarne. Senza la nostra materia prima, l’economia del mondo non può andare avanti”, sostiene Pierre Kabeza. Anche Pierre ha dovuto lasciare il suo Paese e tornerà solo quando cesserà quello che chiama “sistema di predazione”: “vogliamo che questa materia prima venga gestita in modo responsabile e umano. Siamo pronti a condividere con il mondo quello che abbiamo, nella nostra dignità e nella dignità di tutti”, aggiunge. “È un fatto che i grandi paesi vengano a rubare da noi. Questo non lo vogliamo più”. Come la guerra. Pace ed equità, è ciò che chiede il Congo alla politica che guiderà il Paese.
Vita in guerra
Chi è nato alla fine degli anni Novanta, non ha mai conosciuto la pace o almeno l’assenza di violenza. Chi ricorda i decenni precedenti, ha visto solo le sue speranze di libertà infrante. In questo immenso paese, il secondo più vasto dell’Africa, il sogno democratico si è spento con l’assassinio di Patrice Lumumba nel 1961, il primo e per molti decenni l’unico presidente democraticamente eletto. Poi, la dittatura di Mobutu Sese Seko, e infine la guerra senza una fine, come senza una fine è il saccheggio dei suoi minerali, e la miseria a cui sembrano condannati milioni di congolesi.
Oggi venti candidati chiedono a circa quarantaquattro milioni di elettori, su una popolazione stimata di oltre 100 milioni, di scegliere; tra loro solo due donne. La partita, però, se la giocano in pochi in queste elezioni che, ricorda Pierre, non sono un affare del Congo, ma del mondo. Corre per un secondo mandato il presidente in carica, Félix Tshisekedi. A sfidarlo, tre nomi di peso:
- Martin Fayulu, l’uomo che molti osservatori ritengono il vero vincitore delle presidenziali del 2018,
- Moïse Katumbi, magnate, proprietario di una squadra di calcio ed ex governatore della provincia mineraria del Katanga e Denis Mukwege. È lui il volto nuovo, l’outsider: premio Nobel per la pace, è il medico che ripara i corpi delle donne violate nel Paese dove come in nessun altro lo stupro è arma di guerra.
“Lobi te, lelo”, “Non domani, ma oggi”
Denis Mukwege ha annunciato con queste parole in lingala, una delle quattro lingue ufficiali del Congo, la sua candidatura solo il 2 ottobre. “Sono pronto”, ha detto alla platea dei suoi sostenitori. Perché fino ad allora, il “dottor miracolo”, il medico di Bukavu, la città sul lago Kivu dove ha fondato l’ospedale Panzi e dove è sempre rimasto salvo un breve periodo di esilio dopo l’attentato in cui furono prese in ostaggio le sue figlie e perse la vita la sua guardia del corpo, di politica non ne aveva mai voluto sapere. Un uomo inattaccabile, spiega John, proprio perché sempre lontano dal potere: “Non ha mai dovuto decidere su qualcosa che ha poi condotto a massacri oppure alla corruzione. Diceva sempre: ‘io non posso, io ho un lavoro da fare’”, racconta John. Sono state le donne, per prime, a chiedergli di candidarsi, e a mettere insieme il denaro che è necessario versare allo Stato per poter correre. “[I sostenitori], hanno raccolto circa 100 mila dollari. [C’erano] donne povere che hanno dovuto rinunciare a qualche comodità per le proprie famiglie, [che si sono autotassate]. Pazzesco”. Soldi necessari, poi, per la campagna elettorale, per incontrare la gente: “Non chiedetemi di prendere i soldi dell’ospedale, e non chiedetemi di andare a chiederli, che non so poi a chi devo risponderne dopo”, avrebbe detto cosi, racconta John.
Ed è per questo che sono partite in tutto il mondo raccolte fondi, anche in Italia, dove è nato un comitato che vede insieme congolesi della diaspora e italiani. Un contributo infinitesimale, dice John, ma che racconta di una lotta che unisce la società civile a dispetto della distanza: “È molto importante che a lottare per risollevare questo popolo ci sia la società civile congolese in Congo, ma anche la partecipazione delle diaspore ovunque si trovino. E che queste diaspore riescano a coinvolgere anche la società civile dei Paesi [che li ospitano] … Siamo interconnessi, quello che succede là, ha ripercussione qui e viceversa”, spiega John che da anni attraversa l’Italia per raccontare ciò che sta accadendo nel suo Paese, e la guerra che devasta l’est. Non è facile, però, agire insieme, spiega. È una sfida contro l’indifferenza e l’individualismo.
Pierre lavora alla Caritas, a Milano, ora con un progetto sulle residenze fittizie, prima nell’integrazione dei migranti. Insegnate, attivista anche lui come John, non smette di credere che la diaspora possa farsi strumento con cui costruire ponti e sostenere il cambiamento politico. “Noi siamo la voce di quest’Africa che non parla, che viene tenuta sempre fuori dal mondo. Portiamo la voce alta dell’Africa, cosa vuole, cosa si aspetta dagli altri continenti”.
Ponti dove non si viaggia in una sola direzione
Chi è fuori dal Congo, e ha conosciuto le democrazie occidentali, può “far capire ai congolesi che esiste un altro sistema possibile”, un modello democratico, occidentale, ma che deve essere radicato nei “valori africani”. “Quello che sta accadendo in Congo in questi anni è la negazione dei valori africani”, sostiene Pierre, che racconta di una cultura politica taciuta e dimenticata, che la classe dirigente che verrà è chiamata a recuperare ma che può essere lezione anche per l’Occidente. “Un capo tradizionale sapeva condividere la ricchezza che aveva con gli altri … Un capo africano tradizionale prima di mangiare dovrebbe assicurarsi che tutti quelli che lavorano con lui abbiano già mangiato. Cosa significa? Significa che prima di pagare i ministri, il capo deve saper pagare la più piccola delle persone… È l’economia della condivisione… Questi sono i valori che noi oggi in Congo abbiamo negato. Chi prende il potere non capisce che il fare politica significa mirare al bene di tutti”. È solo un esempio, sottolinea Pierre, ma “è questa la lotta che stiamo facendo oggi. La gioventù sta lottando per la nuova Africa ed è una gioventù che dice che è possibile conciliare i valori democratici occidentali con alcuni valori africani”, aggiunge. Sono questi giovani che chiedono alle donne e agli uomini candidati a guidare il Congo, come in altri paesi africani, la responsabilità di costruire un “nuovo sistema”, spiega Pierre. “C’è una presa di coscienza, soprattutto [nel mondo accademico], tra gli studenti, gli intellettuali, che è il momento oggi di trovare una persona, una classe politica che metta al centro il bene comune”, sostiene.
Chi vincerà?
“Non c’è l’unanimità su nessun candidato, questo bisogna dirlo”, spiega John. “Che il premio Nobel sia preferito dalla maggioranza dei congolesi, fino al voto non lo possiamo dire. E poi soprattutto, non sappiamo se il voto sarà trasparente e se non ci saranno dei brogli. Probabilmente non sapremo neanche quale sarà stata la preferenza esatta”, aggiunge. “Anche io temo che queste elezioni non saranno tenute come si deve”, confessa Pierre. La paura è che ancora una volta si stenda l’ombra dei brogli che ha pesato sull’ultima tornata, quella del 2018, da molti considerata irregolare, e che pure è stata il primo passaggio di potere non violento di questo Paese. L’Unione Europea ha rinunciato alla missione di osservazione e manterrà solo otto esperti nella capitale, secondo quanto riporta la BBC. Resterà, invece, il team di osservazione del Carter Center. Si teme, però, che non si vada neppure al voto.
I seggi, assicura Denis Kadima, presidente della Ceni, la commissione elettorale indipendente che ha il compito di organizzare le elezioni, apriranno al mattino presto e chiuderanno la sera: si voterà, ne sono convinti. “Finché non vedo queste elezioni non ci credo”. È dubbioso John, perché le elezioni sono una sfida logistica titanica. Due milioni e 345mila chilometri quadrati, con poche migliaia di kilometri di strade in buone condizioni, in Congo tutto viaggia per aria o via acqua, e quando tocca terra, rallenta, si si ferma, s’impantana. “Non riusciamo a capire con quale magia faranno arrivare a destinazione i kit [elettorali]”, aggiunge. Portare le schede e tutto quello che serve a far funzionare la macchina delle votazioni nelle zone più remote è un’impresa per la quale in molti credono che il Congo non sia pronto. È stato richiesto anche l’aiuto logistico dei caschi blu, la Monusco, la forza di interposizione delle Nazioni Unite la cui presenza nell’Est è fortemente contestata dalla popolazione ed è destinata a lasciare il paese, ma il cui mandato verrà presumibilmente rinnovato proprio il 20. “[C’è chi] dice che faranno di tutto … per tenere lo stesso le elezioni. Non importa che in tanti non abbiano ricevuto i kit”, sostiene John. Non si voterà, invece, dove infuria la guerra e le condizioni di sicurezza non lo consentono, come nei territori di Rutshuru e Masisi, in quel Nord Kivu dove si combattono oltre 120 gruppi armati.
Di certo, non si sa neppure quanti sono veramente quelli che hanno diritto a votare, perché in Congo non si tiene ancora traccia neppure di tutti quelli che nascono e di tutti quelli che muoiono. Ciò che in Europa e altrove sembra banale e scontato, nel cuore dell’Africa è un privilegio la cui assenza significa diritti negati: non c’è una vera anagrafe, un registro della popolazione, non ci sono documenti per tutti, ma ci si prova a contare solo in occasione del voto, iscrivendo i cittadini come meglio si può nelle liste elettorali, senza sapere se tutti avranno la loro tessera per votare.
In ballo la fine della guerra
Eppure queste elezioni sono molto importanti perché in ballo c’è la fine della guerra, quella che ha fatto il più altro numero di vittime dopo la Seconda guerra mondiale e ha condannato il Congo ad essere teatro di una delle più gravi crisi umanitarie contemporanee, con circa 6,9 milioni di sfollati interni. È la pace la priorità. “Se [il Congo] non viene pacificato, se non viene liberata la parte Est, siamo al punto di partenza”, sostiene John. “Non si può fare sviluppo in un paese senza la pace”, aggiunge Pierre. “E questo significa organizzare bene l’esercito, il sistema di sicurezza… tutto il sistema amministrativo… Poi, [serve] creare un altro [modello] economico basato sul bene comune. Però la grande priorità è la pacificazione, senza la pace non c’è nulla”, spiega.
Chiunque sia a vincere, che vinca il migliore, il migliore per il Congo, “la persona che potrà ridarci la pace, che potrà in qualche modo risollevarne l’economia e la situazione sociale, e che potrà lottare contro ogni forma di corruzione, finalmente restituendo al paese il posto che è il suo, e alle popolazioni congolesi il necessario per tornare a vivere”, afferma John. Per lui, come per Pierre, la persona che potrebbe incarnare questo ruolo è Denis Mukwege. Ma che sia lui o qualcun altro, la speranza adesso è prima di tutto che si voti e che “avvenga in pace”, perché a pochi giorni dal 20 dicembre l’unica cosa di cui c’è certezza è che la violenza sta ogni minuto di più scuotendo il Congo.
Elena L. Pasquini: giornalista, esperta di Africa, specializzata nelle politiche di sviluppo internazionali e in quelle agricole globali. Ha pubblicato La meccanica della pace, il racconto di chi è riuscito a negoziare un accordo, a far cessare la violenza o a contribuire alla riconciliazione di due comunità in lotta.