Gas e sangue in Mozambico
Fonte immagine All must be beheaded
Ufficio Policy Focsiv – Dopo aver già riferito del terrorismo a Cabo Delgado in Mozambico, dove operano anche le multinazionali Total ed Eni per lo sfruttamento del gas (Quale Piano Mattei in Africa? Il caso del Mozambico – Focsiv), e degli scontri in atto per le contestazioni delle recenti elezioni (Mozambico, l’opposizione chiama allo sciopero generale), riportiamo di seguito quanto emerso dal report pubblicato da Politico Europe, edizione europea della famosa testata giornalistica americana, ‘All must be beheaded’: Revelations of atrocities at French energy giant’s African stronghold. Mozambican soldiers operating out of a TotalEnergies’ natural gas plant abducted, raped and killed dozens of civilians. L’articolo indaga le violenze commesse nel nord del Mozambico, nella penisola di Afungi, nei pressi di un grande impianto di gas naturale gestito da TotalEnergies, una delle principali compagnie energetiche francesi. Si tratta di uno dei più importanti progetti privati mai realizzati nel continente africano, valutato circa 50 miliardi di dollari, ma che ha sollevato gravi questioni di responsabilità e violazioni di diritti umani.
L’area, strategicamente rilevante per via delle ricche riserve di gas offshore scoperte nel 2010, ha visto un rapido aumento della violenza negli ultimi anni a causa dell’attività di insorti locali affiliati all’ISIS, noti come al-Shabaab: questa milizia estremista, guidata da Bonomade Machude Omar, ha compiuto frequenti attacchi contro le forze governative e contro infrastrutture civili, tra cui lo stesso progetto di gas naturale.
Il grande impianto costruito dalla Total (esso è composto da una fabbrica di liquefazione del gas, un porto, una pista d’atterraggio e diverse strutture per i lavoratori), tra l’altro edificato su territori sottratti dal governo alle comunità locali, è stato trasformato in una fortezza, circondato da recinzioni alte 4 metri e numerose torri di guardia. Qui, il governo mozambicano ha schierato una forza speciale di circa 700 uomini, composta da soldati, forze paramilitari e polizia, finanziata e sostenuta logisticamente proprio dal colosso petrolifero, in base a un accordo per la protezione delle strutture industriali. I rapporti tra la popolazione e queste forze sono però degenerati rapidamente, culminando in veri e propri massacri (vedi Total denunciata per i danni in Mozambico).
L’indagine di Politico descrive una serie di eventi particolarmente cruenti avvenuti tra il 2021 e il 2022. In particolare, nel corso della riconquista di Palma da parte dell’esercito mozambicano, centinaia di civili si sono rifugiati presso l’impianto sperando di trovare protezione. Tuttavia, al loro arrivo, molti uomini sono stati accusati, senza alcuna prova, di essere simpatizzanti o membri degli insorti. I militari hanno allora separato gli uomini, circa 180-250 persone, dalle donne e dai bambini, conducendoli in container metallici posti all’ingresso dell’impianto. Questi container, descritti dai testimoni come vere e proprie prigioni, erano utilizzati per rinchiudere i sospetti in condizioni disumane: le temperature interne superavano spesso i 30 gradi e non c’era spazio per sedersi. La mancanza di cibo e acqua ha causato frequenti svenimenti, portando molti prigionieri a bere la condensa che si formava sulle pareti pur di non morire di sete.
La prigionia è durata tre mesi, durante i quali i militari hanno torturato regolarmente i detenuti con pestaggi, minacce di decapitazione e abusi di altro genere.
In molti sono stati uccisi: le esecuzioni avvenivano fuori dal sito, dove i prigionieri erano portati per “tagliare legna”, frase in codice usata dai soldati per indicare le esecuzioni; secondo le testimonianze, circa 15 uomini venivano selezionati a turno, incappucciati e giustiziati in maniera sommaria. La brutalità era tale che molti dei detenuti sono morti a seguito delle torture e delle privazioni. Dei prigionieri iniziali, solo 26 sono sopravvissuti, salvati dall’arrivo dell’esercito ruandese, inviato in Mozambico secondo un accordo tra i due paesi e la Francia per contrastare l’insurrezione islamista e riprendere il controllo della regione.
L’articolo pone interrogativi significativi sulla responsabilità della compagnia francese, che sostiene di non essere stata presente sul sito al momento dei fatti e di non essere dunque a conoscenza delle atrocità commesse, negando ogni coinvolgimento diretto nelle operazioni militari. Tuttavia, i contratti e i contributi finanziari di TotalEnergies alla Joint Task Force fanno pensare a una connivenza indiretta, sebbene la società sostenga che l’area fosse interamente gestita dalle forze di sicurezza mozambicane durante il periodo delle violenze (vedi Total, i crimini di guerra in Mozambico e quel progetto fossile garantito dall’italiana SACE).
Il CEO Patrick Pouyanné, è stata messo sotto accusa, poiché la sua strategia di espansione nei mercati emergenti si basa proprio su operazioni in contesti ad alto rischio politico e sociale, come il Medio Oriente e l’Africa; egli ha dichiarato di essere consapevole di tali problematiche, ma che queste sono compensate dai potenziali benefici economici (vedi Basta finanziamenti pubblici internazionali per l’estrazione fossile).
Il massacro ha suscitato proteste internazionali, con attivisti e organizzazioni per i diritti umani che denunciano gli abusi, chiedono indagini e pronunciano accuse formali nei confronti della compagnia, nonché il suo ritiro dal Paese. Inoltre, le famiglie dei sopravvissuti hanno intrapreso azioni legali in Francia, accusando TotalEnergies di non aver agito per garantire la sicurezza dei civili e dei suoi stessi lavoratori.
Dal canto suo, l’azienda continua a respingere le accuse, ribadendo di non aver avuto alcuna responsabilità diretta e di aver evacuato il personale in tempo. Ciononostante, il caso ha posto l’azienda sotto la lente delle autorità francesi, che stanno esaminando se aprire un’indagine ufficiale.
La vicenda di Afungi mette in luce le complesse sfide e i gravi rischi legati alle operazioni delle multinazionali in zone di conflitto, sollevando questioni importanti circa la responsabilità sociale delle imprese. Ignorare l’impatto degli investimenti su comunità già fragili e soggette a violenze istituzionali o paramilitari espone queste popolazioni a conseguenze devastanti e mette a rischio i già precari diritti umani. Questo caso emblematico potrebbe avere, quindi, ripercussioni durature sul modo in cui le multinazionali gestiscono la loro presenza in tali contesti ad alto rischio, ponendo dei limiti agli interessi meramente economici.
L’indagine di Politico, fondata su testimonianze dirette e su una ricostruzione approfondita degli eventi, ha messo in luce una questione di giustizia internazionale e di etica aziendale (vedi anche “Così le multinazionali occidentali non pagano le tasse in Mozambico”), rendendo Afungi un simbolo nella lotta per una maggiore responsabilità delle multinazionali in situazioni di vulnerabilità.