Il Covid-19 ha esacerbato l’esclusione dei migranti
di Matteo Sanfilippo, CSER-UNITUS, e Andrea Stocchiero, FOCSIV
Più povertà e più disuguaglianza: è questo l’impatto che il Covid ha avuto sui migranti, a causa di una struttura del mercato del lavoro, dove segregazione ed etnicizzazione pongono più a rischio i nuovi arrivati, e per l’adozione di misure politiche discriminatorie. Questa è la conclusione principale del workshop online organizzato da CSER e FOCSIV il 16 novembre scorso, con il sostegno del progetto Volti delle Migrazioni e la partecipazione degli studenti dell’Università della Tuscia.
La prima parte del confronto è stata dedicata all’impatto del Covid sul mercato del lavoro dei migranti in Europa e ha evidenziato diverse questioni emerse in alcuni Paesi. Dopo la presentazione da parte di Lorenzo Prencipe, presidente CSER, delle principali conseguenze prodotte dalla pandemia di Covid-19 nel mondo, sono stati illustrati i casi della Scandinavia (Monica Miscali, Norwegian University of Science and Technology), della Germania (Edith Pichler, Centre for Citizenship, Social Pluralism and Religious Diversity dell’Università di Potsdam), del Belgio (Andrea Rea dell’Università di Bruxelles) e della Francia (Luca Marin, CIEMI di Parigi), mentre Piero Damosso (RAI) ha evidenziato alcuni temi su cui la comunicazione dovrebbe porre più attenzione.
Successivamente, la discussione si è focalizzata sull’Italia: alla relazione iniziale di Ferruccio Pastore e Claudia Villosio (rispettivamente FIERI e Collegio Carlo Alberto di Torino) è seguita la presentazione di alcune esperiente d’intervento ad opera di Andrea Stocchiero e Rossella Cortellessa (FOCSIV e Vides), Andrea Zampetti (CARITAS), Emanuele Selleri (ASCS). Infine, Tatiana Esposito (Ministero del Lavoro e Affari Sociali) ha concluso la prima parte evidenziando alcune possibili piste di azione.
Le analisi esposte hanno evidenziato come nei Paesi europei i migranti e le minoranze siano stati i più colpiti sia dal virus che dalle conseguenze della crisi economica: soprattutto in termini di disoccupazione, esclusione sociale e caduta nella irregolarità. Tutto ciò per diversi fattori. Innanzitutto, il Covid ha colpito in misura maggiore i migranti in Scandinavia, Germania e Belgio, dove troviamo una notevole segregazione spaziale: quartieri-ghetto in cui gli immigrati vivono in appartamenti e dormitori affollati. E questo rivela quanto la politica di integrazione abbia fallito in quei Paesi.
In secondo luogo, i migranti sono maggiormente esposti al virus, perché operano in un mercato del lavoro segmentato e sono impiegati principalmente in settori economici come commercio, servizi alla persona, trasporti, sanità, dove non è possibile lo smart working. A tal proposito è sorprendente il dato tedesco: in Germania vi sono circa 300.000 badanti, di cui il 90% irregolari, in condizione di precariato e di esposizione al virus. Un caso analogo coinvolge chi lavora nei mattatoi ed è alloggiato in dormitori, dove sono scoppiati diversi focolai del virus.
In terzo luogo, gli immigrati e le minoranze sono più indifesi rispetto al virus perché soffrono di malattie respiratorie oppure di patologie come diabete e obesità, dovute a stili di vita tipici delle persone a basso reddito, che acquistano prodotti a scarso valore nutritivo e vivono in quartieri inquinati. In molti casi, queste persone hanno scarsa consapevolezza dei rischi del cibo spazzatura e questo indica come nella maggiore vulnerabilità dei migranti giochino fattori di carattere psicologico e culturale: hanno infatti una percezione minore del rischio Covid, perché risultano prioritarie altre preoccupazioni come il lavoro e i documenti di soggiorno, nonché a causa della loro scarsa fiducia nelle istituzioni e nei media ufficiali.
La maggiore vulnerabilità degli immigrati rispetto alle conseguenze del virus è poi dovuta alla crisi economica e sociale, soprattutto per settori come edilizia, alberghiero e ristorazione, dove si concentra di più il lavoro di nuovi arrivati, molte volte in forma precaria. Ecco, quindi, che la disoccupazione dei migranti è stata superiore a quella degli autoctoni: in Francia, ad esempio, la disoccupazione dei non comunitari ha raggiunto il 23% contro il 6% di quella dei comunitari. D’altra parte, vi sono state più opportunità in settori essenziali come l’agricoltura o i mattatoi, ma in condizioni di scarsa sicurezza e sempre soggette a forme di caporalato e sfruttamento.
La maggiore esposizione degli immigrati ha portato alla loro stigmatizzazione come “untori” e tale stigma è stato strumentalizzato dai media e dai politici xenofobi e razzisti, senza che si potesse ragionare sulle motivazioni legate alle dinamiche e politiche di esclusione. D’altra parte, è risultata evidente la dipendenza di alcuni settori dal lavoro migrante, si pensi all’agricoltura e ai servizi alla persona, e questo ha portato all’apertura di ponti aerei tra Bulgaria e Germania per avere un rifornimento di manodopera.
In Italia dalla crisi economica del 2008 era già evidente la tendenza a una maggiore segregazione del lavoro migrante, questa si è acuita con il covid. Lo shock ha aumentato la disoccupazione e il tasso di inattività dei nuovi arrivati, segno preoccupante di esclusione sociale ed economica, di perdita di fiducia nel futuro.
A fronte di questa situazione le politiche del reddito sono state discriminatorie: il reddito di cittadinanza ha escluso gran parte dei migranti essendo l’accesso condizionato a una residenza di almeno 10 anni e tale esclusione è stata solo in parte compensata dal reddito di emergenza. Il risultato finale è più povertà, esclusione e disuguaglianza per la popolazione immigrata. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (il PNRR) non tiene conto di questi dati e non mostra misure dedicate a tale popolazione.
In una simile congiuntura una parte della società civile si è organizzata per rispondere ai bisogni e garantire i diritti sociali dei migranti. Per illustrare tale sforzo sono state presentate le esperienze di Caritas Roma, della FOCSIV con le suore salesiane di Vides, della galassia scalabriniana. Dalla distribuzione di aiuti alimentari all’assistenza psicologica, dalla cura delle pratiche per la regolarizzazione al sostegno per trovare nuova occupazione e prevenire il lavoro in nero, lo sfruttamento e il caporalato.
Da tutte queste esperienze sono emerse la necessità e l’opportunità di fare rete tra le associazioni del terzo settore e con le istituzioni. In particolare la Caritas ha presentato un progetto di filiera di servizi distribuito tra le oltre 100 parrocchie di Roma, sul territorio, per raccogliere i bisogni e impostare percorsi di sostenibilità offrendo alternative allo sfruttamento. Mentre gli scalabriniani con il progetto Radix assieme ad altri partner e al comune di Latina operano per la prevenzione del caporalato.
Al termine di questa prima parte del workshop, Tatiana Esposito, Direttore Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, ha riconosciuto con preoccupazione le dinamiche in corso. Il ministero ha redatto un rapporto dove emerge con chiarezza come il profilo delle persone più a rischio di povertà assoluta siano i migranti con minori, le donne e i giovani a basso tasso di istruzione che vivono nel Mezzogiorno. E questo senza considerare tutto il sommerso. Il Ministero del Lavoro sta perciò definendo un piano 2021-2027 con la partecipazione di tutti i ministeri competenti e delle organizzazioni della società civile, per una programmazione integrata in tema di lavoro, integrazione e inclusione, definendo una serie di misure con fondi a disposizione per affrontare le crisi di cui sopra. Inoltre, nonostante le critiche, il PNRR nella missione 5 sull’inclusione e coesione sociale, prevede misure che vanno a favore anche degli immigrati come il Programma nazionale per l’occupabilità dei lavoratori, con il piano di lotta al lavoro sommerso.
Infine, citando Papa Francesco, Esposito ha auspicato l’impegno di tutti per “organizzare la speranza”, assicurando l’attenzione del suo ministero al coinvolgimento del terzo settore.
Nel pomeriggio, dopo l’intervento sulla deontologia giornalistica di Paola Barretta (Carta di Roma), che ha sottolineato come dal 2013 a oggi la stampa italiana ha purtroppo sempre descritto gli arrivi come una continua emergenza culminando logicamente con l’immagine degli untori al tempo del Covid, Nando Sigona (Università di Birmingham) ha aperto le riflessioni sugli spazi extra-europei.
Ha così mostrato come gli effetti della pandemia si siano cumulati a quelli della Brexit, cosicché l’immigrazione nel Regno Unito è colata a picco. Ciò nonostante, i motivi alla base dell’uscita dall’Unione Europea hanno spinto verso una militarizzazione della politica migratoria e una sostanziale dismissione della tradizionale accoglienza britannica. Il virus è stato descritto come un qualcosa che veniva dall’esterno e ciò ha spinto alla chiusura delle frontiere, scegliendo un “nazionalismo vaccinale”, che richiama la rigida politica anti-immigratoria dell’Australia.
Allargando il quadro, Stefano Luconi (Università di Padova) si è concentrato sulla questione lavorativa negli Stati Uniti dove non sono state adottate generalizzate forme di lockdown, ma la pandemia ha comunque bloccato i trend in crescita (pre-Covid) dell’occupazione e della produzione. Già nei primi tre mesi del 2020 la disoccupazione è schizzata in alto colpendo soprattutto i settori tradizionali del lavoro immigrato: a giugno 2020 il 15,3% degli immigrati ha perso il lavoro a fronte del 12% dei lavoratori autoctoni, quando in precedenza la situazione vedeva i nuovi entrati avere un tasso d’impiego superiore a quello degli autoctoni. In particolare, sono state colpite le immigrate. Come nel Vecchio Mondo, gli immigrati erano particolarmente numerosi nell’edilizia, ristorazione e ospitalità alberghiera, ma le attività in questi settori sono state completamente stroncate e non hanno potuto essere sostituite dallo smartworking. Chi ha mantenuto il lavoro, lo ha fatto in settori (come agricoltura e assistenza sanitaria) nei quali era impossibile garantire il distanziamento sociale e così è stato gravemente esposto alla pandemia.
La situazione dell’America latina è stata illustrata da Paolo Parise (CEM di San Paolo) e Sidnei Marco Dornelas (CEMLA di Buenos Aires). Il primo ha mostrato come nell’enorme territorio brasiliano a essere maggiormente colpiti siano stati gli immigrati, provenienti dai vicini paesi ispanofoni o da alcune isole caraibiche, ma anche dall’Africa. I nuovi arrivati non solo hanno subito maggiormente gli effetti della pandemia, ma sono stati forzati ad abbandonare il Paese per intraprendere il pericoloso (e in genere disperatamente inutile) cammino verso gli Stati Uniti. In tale contesto è da notare anche la nuova fuoriuscita di brasiliani, partiti verso il Nord America, fuggendo da un Paese nel quale la dissennata politica del presidente ha trasformato la già drammatica situazione sanitaria in un incubo mortale.
Dornelas ha descritto quanto accaduto nell’America Latina ispanofona. Qui il Covid-19 ha esacerbato le tensioni che già opprimevano i migranti. In particolare, ha provocato una triplice crisi: economica, giuridica e sanitaria. Ha infatti estremizzato la precarietà lavorativa e quotidiana dei migranti, ne ha acuito e al contempo vanificato la ricerca di documentazione in grado di farli uscire dalla clandestinità. Infine, ha decuplicato le insalubri condizioni quotidiane. Per illustrare questa situazione Dornelas ha discusso fenomeni quali la drammatica diaspora di quasi 5 milioni di venezuelani verso Colombia, Perù, Ecuador, Cile, Brasile e Argentina. Questi migranti hanno un ottimo livello sociale e culturale di partenza, ma sono stati obbligati a cercare impiego in settori difficili e pericolosi come la consegna a domicilio di cibo già preparato, oppure l’assistenza sanitaria di base. Hanno affrontato giornate lavorative di 13-14 ore, a paga bassissima e con troppi contatti fisici, senza ottenere in cambio la regolarizzazione della loro permanenza. Il secondo scenario analizzato da Dornelas riguarda il lavoro temporaneo in Cile: nella cintura agricola di Santiago la raccolta della frutta e degli ortaggi è affidata a immigranti temporanei dalla Bolivia e da altre nazioni. Tra l’altro questo fenomeno mostra come si formino corridoi migratori, che non sempre si dirigono verso il nord, cioè gli Stati Uniti, e che forniscono ad alcune nazioni una massa di lavoro “uberizzata”, cioè disponibile a impieghi rischiosi e a breve tempo.
In Canada, ha spiegato Martin Pâquet dell’Università Laval di Québec, il controllo federale e provinciale sull’immigrazione l’ha mantenuta costantemente in lievissima crescita negli anni 2000-2018, ma l’ha anche fatta crollare drammaticamente dalla fine del 2019. Il Canada si è infatti chiuso agli arrivi dall’esterno e al contempo ha aumentato i controlli all’interno su tutta la popolazione (non solo immigrata). Questo controllo ferreo ha creato forti difficoltà soprattutto agli immigrati, impiegati in settori costretti a fermarsi. Inoltre, ha bloccato la mobilità all’interno del Paese, confinando i nuovi entrati nei luoghi di arrivo, in genere meno salubri degli altri e comunque meno favorevoli ad affrettare il processo di integrazione.
Gennaro Errichiello ha presentato i Paesi del Golfo, difficili da studiare perché non offrono dati precisi. Tuttavia sappiamo che negli Emirati Arabi e in Arabia Saudita la presenza immigrata è rilevante, tanto che nei primi costituisce addirittura il 90% della popolazione globale. Le condizioni di questa maggioranza è difficile già per statuto, poiché il lavoro immigrato è sempre temporaneo e allo scadere del contratto di lavoro il nuovo entrato è obbligato a ripartire, a meno che non sia impiegato da multinazionali occidentale. Non ci sono dati sulla disoccupazione attuale, né su come la pandemia abbia colpito gli immigrati. Sennonché i tassi pandemici sono particolarmente alti negli Emirati Arabi, proprio dove gli immigrati sono percentualmente maggioritari. Nel contesto dell’emergenza le nazioni del Golfo hanno inoltre organizzato, assieme alle nazioni di origine, voli di rimpatrio per i migranti senza più lavoro. Infine hanno tentato di ridurre la propria dipendenza dal lavoro immigrato, suggerendo agli imprenditori privati di non assumere persone venute da fuori, ma giovani connazionali. Analogamente gli interventi pubblici per l’emergenza sanitaria hanno aiutato soprattutto i cittadini e non i migranti.
Infine, Filippo Ferraro (SIHMA di Città del Capo) ha tratteggiato il quadro dell’Africa australe e del Sudafrica. L’emigrazione africana, ha specificato come premessa, è soprattutto regionale con una forte mobilità tra nazioni vicine. Per quanto riguarda l’area descritta nel suo intervento, il Sudafrica è il centro di attrazione, ma cerca di evitare l’ingresso di immigrati economici e ora di rifugiati, che hanno possibilità di lavorare o studiare una volta entrati, senza dover passare attraverso campi di raccolta. Ovviamente la pandemia ha messo in crisi il mercato del lavoro e dunque i nuovi arrivati non sanno come sopravvivere, non ricevendo sussidi statali, né essendo ospitati in specifiche strutture di sostegno. Inoltre, pur essendosi potuto basare sull’esperienza dell’Europa e degli Stati Uniti data la posizione nell’altro emisfero, il Sudafrica non ha potuto o meglio voluto controllare del tutto l’evolversi del fenomeno. O meglio ha quasi subito mirato a controllare l’impatto economico della pandemia, senza curarsi troppo dell’emergenza sanitaria. I migranti e in genere tutte le persone più vulnerabili hanno pagato quindi il conto più salato; inoltre, a lungo termine hanno visto in pericolo anche le loro forme di impiego.
Nel complesso anche gli interventi di questa seconda parte del seminario hanno tracciato un quadro particolarmente critico. Hanno insistito sulla necessità di fare rete per fornire aiuti ai migranti e allo stesso tempo premere sulle autorità statali in modo da garantire sempre più i diritti dei nuovi arrivati. Come rilevato dalle varie comunicazioni, anche se il quadro politico dei vari Paesi impedisce in molti di essi di ottenere risultati concreti, è indispensabile continuare la mobilitazione delle conoscenze e delle collaborazioni, non solo per sconfiggere il virus, ma soprattutto per contrastare le conseguenze sociali ed economiche che condizionano la vita delle persone più precarizzate come migranti e rifugiati.
Il CSER pubblicherà, nelle prossime settimane, gli atti completi del seminario su Covid, migrazioni e mercato del lavoro tenutosi in streaming il 16 novembre 2021.