Il modello di estrattivismo: gigantismo e aree di sacrificio
Ufficio Policy Focsiv – Nell’ambito dell’interesse di Focsiv sul tema dell’accaparramento delle terre (Land Grabbing e Agroecologia – Focsiv) presentiamo di seguito una sintesi dell’analisi sull’estrattivismo condotta dalla ricercatrice Maura Benegiamo dell’Università di Pisa, esperta nell’ambito dell’ecologia politica, dei conflitti ambientali e delle tematiche legate alla transizione ecologica, discussa durante il Convegno “Le montagne non ricrescono” a Carrara.
La ricercatrice non si limita a esaminare “come” le risorse vengono prodotte ed estratte, ma si spinge oltre, interrogandosi per “chi” e per “che cosa” questo avvenga. Attraverso una prospettiva di sociologia economica e del lavoro, Benegiamo esplora il legame tra estrattivismo e modello capitalista, evidenziando il suo devastante impatto sul tessuto sociale e ambientale.
Nella prima parte dell’analisi, fornisce una definizione dell’estrattivismo e ne contestualizza l’importanza nel panorama attuale. Successivamente, espone il legame tra l’attività estrattiva e la configurazione del modello sociale, sottolineando come l’estrattivismo contribuisca a definire un modello sociale conflittuale e “di sacrificio”. Secondo i dati raccolti dall’ONG internazionale Global Witness, l’estrattivismo minerario, associato a quello agroindustriale, è il principale responsabile dell’assassinio di attiviste e attivisti che lottano per la preservazione dell’ambiente, dell’acqua e della terra in tutto il mondo. Infine, la ricerca si conclude con una riflessione sulla necessità di ascoltare le rivendicazioni dei movimenti sociali e climatici, per costruire un modello di sviluppo alternativo.
Definizione
L’estrattivismo può essere definito come “un modello socio-economico basato sulla rifunzionalizzazione dei territori a favore dell’estrazione intensiva o estensiva di una specifica risorsa, allo scopo di commercializzarla nei mercati globalizzati”. Per completare la definizione, la ricercatrice fa riferimento all’idea di una presunta separazione tra società e natura. Questa impostazione implica che natura e società siano intese come due entità separate, permettendo alla società di trattare la natura come qualcosa da dominare e controllare, anziché riconoscere la stretta interdipendenza. Il concetto di estrattivismo trova origine nei movimenti sociali dell’America latina durante i conflitti contro le grandi miniere a cielo aperto ed i mega progetti industriali.
Analizzando la definizione troviamo 3 concetti chiave: il primo elemento è l’idea di funzionalizzazione, ovvero l’utilizzo esclusivo del territorio in un’attività o settore, senza considerare i bisogni locali e a discapito della diversificazione economica e sociale così come della biodiversità. Questo concetto si estende anche in altri ambiti, tra cui “estrattivismo agroindustriale”, in riferimento in particolare alle grandi monoculture estensive, e si parla sempre più spesso di “estrattivismo turistico”.
Il secondo elemento da considerare è la finalità estrattiva, che consiste nell’inserimento di una specifica risorsa nei mercati globali. Questo concetto permette di distinguere tra estrazione intesa come attività produttiva legata al territorio e estrattivismo guidato da logiche economiche esterne, con impatti significativi sulle comunità locali e sull’ambiente. Infine, il terzo elemento riguarda l’intensità e l’estensione dei progetti estrattivisti. Un concetto centrale associato a questo è il gigantismo.
Il legame tra mercati globali e gigantismo
Gli elementi che definiscono l’estrattivismo si influenzano reciprocamente in maniera strutturale. Per comprendere appieno il funzionamento dell’estrattivismo, è importante considerare la dinamica delle “scale” con quella della “scala”, ovvero tra il gigantismo delle operazioni estrattive e l’estensione globale delle catene del valore, dei flussi di materiali e delle merci in cui le risorse estratte sono inserite.
Il legame tra le “scale” (dimensioni) e la “scala” (ampiezza) sta nel fatto che quando le operazioni di estrazione crescono, contribuiscono alla crescita dei mercati globali. Al contempo, l’espansione dei mercati globali spinge a fare più estrazioni in tutto il mondo per soddisfare la crescente domanda di risorse e prodotti. In sintesi, l’estrazione delle risorse alimenta un mercato globale che funziona solo quando cresce e si espande, domandando a sua volta sempre più risorse, in una spirale cumulativa. È evidente che l’attività estrattiva sostenibile è impossibile da realizzare, a causa della forte interconnessione tra tutte le variabili coinvolte.
Il rapporto dell’UNEP – il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente – ha esaminato l’estrazione globale di materiali dal 1900 al 2005. Secondo i dati raccolti, c’è stato un aumento di otto volte dell’estrazione totale in meno di un secolo, con un notevole incremento per i minerali da costruzione (cresciuti di un fattore 34), i minerali industriali (cresciuti di un fattore 27) e i vettori energetici fossili (cresciuti di un fattore 12). Tuttavia, nonostante l’aumento della produzione di biomassa (ossia i prodotti dell’agricoltura), persiste il problema della fame nel mondo. Questo dato ci fa capire che si produce di più, ma non per tutti.
Il punto centrale su cui si focalizza la ricercatrice non è solo come le risorse vengono prodotte ed estratte, ma anche di capire per “chi” e per “che cosa” questo avvenga. La questione delle finalità che stanno dietro i processi estrattivi è importante perché ci permette di fare la distinzione tra una transizione di mercato, che si limita a sostituire un tipo di produzione e consumo con un altro, ed una proposta di transizione e trasformazione di tipo sociale o socio-ecologica. Questa distinzione ci aiuta a capire le motivazioni dietro i processi estrattivi per assicurare una gestione equa e sostenibile delle risorse, evitando che gli interessi privati prevalgano sul bene pubblico.
La discussione sulla transizione ecologica spesso si focalizza solo sulle soluzioni tecnologiche, ignorando gli aspetti sociali e politici. Tuttavia, una vera transizione ecologica dovrebbe includere anche una riflessione sui modelli sociali, sulla redistribuzione delle risorse e sulla democratizzazione dei processi decisionali.
Nel contesto dell’estrazione mineraria, la logica della globalizzazione non implica soltanto un’espansione dei siti estrattivi, ma permette alle imprese estrattive di operare in luoghi spesso marginali nascondendo gli impatti sociali e ambientali delle loro attività. Non è un caso che i mercati finanziari consentano alle imprese di evitare di fornire informazioni agli azionisti sugli impatti sociali e ambientali delle loro attività in determinati territori. Risulta evidente la volontà da parte di questo settore di rendere opaca l’informazione su come opera.
Un modello sociale conflittuale e “di sacrificio”
L’estrattivismo è un modello conflittuale in cui si registra una violenza sistemica. Secondo i dati raccolti dall’ONG internazionale Global Witness, l’estrattivismo minerario, associato a quello agroindustriale, è il principale responsabile dell’assassinio di attiviste e attivisti che lottano per la preservazione dell’ambiente, dell’acqua e della terra in tutto il mondo. Si tratta di numeri significativi: nel 2019, Global Witness ha registrato l’omicidio di 212 attivisti, molte delle quali donne e soprattutto indigene. I numeri salgono a 227 nel 2020. E se facciamo i calcoli, si tratta di più di una persona uccisa ogni due giorni. Sempre secondo l’ONG il 60% di queste morti è legato al settore estrattivo e agroindustriale. Uno studio del 2020, basato sui dati dell’EJAtlas della giustizia ambientale, rivela che nel mondo il 13% degli attivisti ambientali è stato assassinato, il 18% è vittima di violenza e il 20% è stato criminalizzato, nel 40% dei casi le vittime appartengono a popolazioni indigene.
Questo modello presenta alcuni elementi ricorrenti, innanzitutto, c’è la tendenza alla criminalizzazione del dissenso. In secondo luogo, lo Stato mostra un favoritismo verso le imprese a discapito dello sviluppo locale. Infine, si riscontra un’assenza di trasparenza negli accordi e nelle operazioni estrattive, che non forniscono informazioni chiare alle comunità locali riguardo agli impatti ambientali e sociali delle attività estrattive.
I territori segnati dall’estrattivismo sono stati definiti come “zona di sacrificio”. Il termine si riferisce a zone del mondo definite dai paesi industriali come zone sacrificabili, dove i residenti sono chiamati a contribuire a un sacrificio collettivo, ai fini del mantenimento di un sistema economico di consumo. E’ un termine che in Italia è stato utilizzato per il caso di Taranto, segnato dagli impatti dell’inquinamento industriale.
Nel rapporto del Consiglio per i diritti umani dell’ONU 2022, emerge una critica forte e inequivocabile nei confronti delle “zone di sacrificio”, sottolineando le implicazioni sociali ed economiche diffuse di questo fenomeno. Il caso di Taranto è stato definito come “una macchia indelebile sulla coscienza dell’umanità“. La denuncia dell’Onu riguarda tutti i territori definiti zone di sacrificio, in cui la salute, la qualità della vita e i diritti umani sono compromessi per favorire gli interessi economici delle aziende inquinanti, a discapito delle comunità locali.
Le persone che vivono in queste zone sono sfruttate, escluse dai processi decisionali e i loro diritti umani vengono calpestati. La creazione e il mantenimento di queste zone avvengono con la complicità dei governi e delle imprese, danneggiando il benessere delle generazioni presenti e future. In questi casi, il lavoro diventa un ricatto, poiché i siti contaminati si trovano in aree svantaggiate, lasciando poco margine di scelta agli individui se non essere esposti alle nocività dei materiali che producono e delle risorse che estraggono.
Giustizia climatica e transizione giusta
Le due rivendicazioni chiave portate avanti dai movimenti sociali e climatici sono la “giustizia climatica” e la “transizione giusta“. La giustizia climatica implica un approccio integrato che affronta simultaneamente due questioni interconnesse: la disparità sociale e la redistribuzione delle risorse da un lato, e il cambiamento dei modelli di produzione e consumo dall’altro. Si tratta di affrontare congiuntamente queste sfide, riconoscendo che sono strettamente legate e che il cambiamento in una sfera può influenzare profondamente l’altra. D’altra parte, la transizione giusta promuove un’economia ecologica che tenga conto dei diritti e delle esigenze dei lavoratori, evitando di lasciarli indietro durante il processo di cambiamento. Queste rivendicazioni sono cruciali per sviluppare un modello alternativo di sviluppo che promuova una transizione ecologica e sociale.