(In) Mobilità e (in) sicurezza umana in Ecuador
Il progetto migratorio è una continua ricerca di sicurezza, ma al contempo si tramuta in un’azione che espone le persone in situazione di mobilità umana a nuovi tipi di insicurezza. Nell’indagare sistematicamente opportunità e vulnerabilità della popolazione migrante e rifugiata, il tema della sicurezza umana aggiunge percezioni addizionali e un’ontologia che giustifica in maniera più esaustiva l’analisi di diverse politiche nazionali e internazionali sulla governance migratoria, tanto della mano destra e securitaria quanto quella sinistra e umanitaria dello Stato (Bourdieu, 2002). Analizzare le pratiche di (in) governabilità migratoria attraverso le quali la popolazione migrante viene costruita come una minaccia alla sicurezza dello Stato di accoglienza, ha l’obiettivo principale di comprendere non solo la logica securitaria e le politiche di identificazione rivolte al contenimento della mobilità umana, piuttosto anche quello di avvicinare e contrastare l’impatto di certe misure alla teoria della così definita “autonomia delle migrazioni”, ovvero all’ esercizio di “debordare” che le persone migranti adottano in risposta ai vari spazi di controllo della migrazione in cui la popolazione coesiste prima del loro ingresso e all’interno del territorio nazionale.
A partire dal 2015, i venezuelani hanno iniziato ad arrivare nei paesi vicini (Colombia, Ecuador, Brasile e Perù) a causa della crisi politica, economica, sociale e umanitaria nel loro paese. Le caratteristiche di questa popolazione sono miste, compresi i migranti e le persone richiedenti protezione internazionale. Dato il loro assiduo arrivo, le risposte dei governi della regione nel corso degli anni, hanno consolidato procedure speciali di regolarizzazione della migrazione o permessi temporanei accompagnate da requisiti di ingresso sempre più rigidi. Nel caso specifico dell’Ecuador, le misure sono andate via via irrigidendosi a seconda delle situazioni specifiche, interessando la popolazione migrante sia negli spazi di attraversamento frontaliero, che nella propria regolarizzazione migratoria.
Prima dell’inizio della mia inchiesta sul campo, il governo del presidente Lenin Moreno Garcés (2017-2021) emise un decreto di emergenza in risposta all’aumento dell’arrivo di questa popolazione. Le persone migranti erano tenute a presentare un passaporto come requisito di ingresso o documenti di identità venezuelani con il proprio certificato di autenticità ma dall’inizio del 2019, il discorso ufficiale emulò la nazionalità venezuelana con stereotipi di criminalità e, di conseguenza, furono attuate nuove misure di controllo e contenimento della migrazione. Come requisito fu richiesta la presentazione di un certificato attestante l’assenza di precedenti penali ed ordinata una maggiore sorveglianza “per controllare la situazione legale dei venezuelani in strada, nei luoghi di lavoro e alla frontiera”[1]. A tal proposito vale la pena ricordare che queste misure confliggono completamente con le disposizioni della costituzione ecuadoriana, che, invece, riconosce il diritto alla migrazione, l’uguaglianza tra cittadini e stranieri, sanzionando la criminalizzazione della migrazione e la discriminazione basata sullo status di persona migrante, oltre a riconoscere la cittadinanza universale come principio delle relazioni internazionali. Eppure, in vista di tali misure restrittive, i venezuelani che arrivano in Ecuador incontrano difficoltà ad entrare, transitare e rimanere nel Paese. Al punto di controllo di frontiera del ponte Rumichaca, ci sono due linee abilitate all’ingresso, una esclusivamente diretta ai cittadini venezuelani e un’altra per i colombiani e di altre nazionalità. Non è un mistero che diversi gruppi familiari con bambini e adolescenti trascorressero la notte nelle strutture di controllo dell’immigrazione, trattenuti dalla presenza dell’esercito militare, la polizia nazionale, ma anche organizzazioni internazionali e ONG che forniscono informazioni e assistenza umanitaria emergente in ambito sanitario e alimentare, prima di vederli camminare lungo l’autostrada verso l’interno del paese.
La strategia principale a questo posto di blocco è identificare e filtrare i migranti per impedire l’ingresso in Ecuador di persone prive di documenti validi, che per la popolazione venezuelana è praticamente impossibile ottenere. Durante vari scambi informali con i taxisti del Paese, è emersa una spiccata tendenza generale nello stato dell’Ecuador e altrove, ad associare i cittadini venezuelani e colombiani, con la criminalità, spesso sottolineando, attraverso un discorso viscerale, che ad entrare non è il “tipo migliore di persone”, bensì “il cittadino censurato e pericoloso in stato di estrema povertà“. In questa prospettiva il controllo è concepito come “necessario per garantire la sicurezza interna dello Stato”, e si configura come una strategia per contenere e fermare il “flusso” che sostiene e riproduce il nesso criminalità-migrazione. Ai venezuelani che non hanno i documenti richiesti, sia per smarrimento o scadenza, mancanza di materiale, furto, ritardo nella loro emissione o costo, è categoricamente impedito di entrare regolarmente nel territorio ecuadoriano.
Abbiamo già menzionato come con l’inasprimento dei requisiti di ingresso, le persone continuano instancabilmente ad arrivare per “sentieri” o passaggi irregolari attorno alla striscia di confine. Di conseguenza, la popolazione venezuelana entra in un circolo vizioso di irregolarità migratoria – indotta ma depoliticizzata – esposta a situazioni di instabilità e incertezza, sempre più insicure e controverse. Senza documenti, registrazione e sanzioni restringono le opzioni di regolarizzazione mentre aumentano le possibilità di rimanere in una situazione circoscritta all’irregolarità, il che comporterebbe successive sanzioni di immigrazione, ripetendo il ciclo. Nell’agosto 2019 entrò in vigore il decreto presidenziale 826, attraverso il quale il governo ecuadoriano implementava il visto d’eccezione per motivi umanitari (VERHU)[2] come requisito di ingresso e via di regolarizzazione all’interno del territorio per i venezuelani. Sebbene fosse gratuito, accettasse passaporti con una scadenza fino a 5 anni ed esentasse dal pagamento di multe coloro che avessero superato il proprio soggiorno regolare, i requisiti di ammissibilità limitavano comunque l’accesso a coloro che presentavano precedenti migratori. Allo stesso modo, il condono delle multe non includeva coloro che venivano multati per l’ingresso con visto turistico e svolto attività commerciali informali propriamente per la propria situazione di alegalità. D’altra parte, sebbene i requisiti per richiedere protezione internazionale siano in generale più flessibili, per quanto riguarda gli ostacoli burocratici o di registrazione alla presentazione di questa domanda, restano inscalfibili i problemi sostanziali che complicano il processo di riconoscimento dello status di rifugiato. In questo senso, la posizione ufficiale del governo è ambigua riguardo al riconoscimento del caso del Venezuela entro i parametri della definizione allargata di rifugiato (Dichiarazione di Cartagena e Convenzione di Ginevra del 1951). Pertanto, essere ammesso al processo di determinazione dello status di rifugiato in Ecuador come venezuelano non è complicato, è del tutto improbabile.
Su questo tema, il problema principale secondo le autorità sarebbe raccogliere informazioni dal paese di origine e determinare l’agente persecutore, ovvero i gruppi o gli individui che hanno causato lo sfollamento. Parimenti, la Direzione per la Protezione Internazionale (DPI) che basa le sue decisioni di ammissibilità su profili specifici, come ad esempio ammettere domande di funzionari pubblici, ex esponenti della forza pubblica e persone con malattie croniche o debilitanti. In generale, la situazione migratoria della popolazione migrante determina il deterioramento delle loro condizioni di vita in un Paese, che include cibo e alloggio, bisogni insoddisfatti, sfruttamento lavorativo ed esperienze di discriminazione dovute alla loro nazionalità.
Durante l’operatività presso l’organizzazione Hias, nella città Quito, ho potuto osservare che i principali problemi incontrati dalle famiglie assistite sono centrati per i più sulle gravi condizioni di salute, l’assenza di registrazione legale della documentazione e l’informalità lavorativa. In queste circostanze, diversi membri del gruppo familiare sono impegnati nel commercio ambulante e nel riciclaggio, guadagnando meno di quanto necessario per coprire i beni di prima necessità, per cui le famiglie tendono inoltre a condividere gli spazi comuni e a negligere, per le disperate condizioni di marginalità, sulle priorità dei minori circa l’educazione e la salute mentale.
Secondo le stime dell’OIM e dell’UNHCR l’arrivo dei venezuelani continuerà ad aumentare. Nonostante le misure che il governo ecuadoriano ha recentemente adottato per promuovere meccanismi di regolarizzazione migratoria, prevale la prospettiva della sicurezza e del controllo. In questo modo, anche tenendo conto del contesto di discriminazione e xenofobia e delle precarie condizioni di vita in cui si trova la popolazione venezuelana, si riducono le possibilità di integrazione locale e di esercizio dei diritti. In un incontro qualitativo promosso da ACNUR, che ho tenuto con un gruppo di persone colombiane e venezuelane assistite dall’organizzazione HIAS Quito Sur, è emerso quanto l’insicurezza provata e testata dalle persone straniere nel territorio ecuadoriano sia un tema sottovalutato e soprattutto in costante aumento. Insicurezza, razzismo, xenofobia e discriminazioni rivolte alla popolazione migrante e rifugiate sono più vive di quanto le statistiche possano registrare. Fernando e John, entrambi colombiani, riportano quanto le grandi città ecuadoriane come Quito, Esmeraldas e Guayaquil siano più pericolose rispetto ad altre province. Ad alzare il tasso di instabilità ed incertezza della popolazione straniera è lo status giuridico in cui versano per anni, prima di riuscire a regolarizzare la propria situazione giuridica nel Paese:
“Molti non sanno di essere rifugiati”, afferma Diane, donna venezuelana, riferendo alla totale assenza di informazione in frontiera. “Ci rendiamo conto qui, che potremmo richiedere asilo”, continua. La maggior parte degli uomini colombiani è in fuga da estorsioni, minacce di morte e persecuzioni, mentre le donne e famiglie venezuelane lasciano il paese per la drammatica situazione economica e politica in cui versa. È evidente nelle loro parole una sorta di normalizzazione della violenza che vive chi scappa dalla crisi e l’inflazione. Fuggono dalla fame, non hanno medicine né accesso ad alimenti, ma per quanto concerne l’ammissione allo status di rifugiato è praticamente impossibile che possano ottenere un qualsiasi riconoscimento giuridico. La Convenzione di Cartagena e la violazione dei diritti di cui sono vittime, è totalmente ignorata dall’assenza di qualsiasi forma di protezione.
Rifletto molto su quanto si ripeta gran parte della storia di dominio e razzializzazione con cui intendiamo oggi le migrazioni e il rifugio. In questo senso, essa invisibilizza la maniera in cui si circoscrive realmente l’indurimento del sistema di frontiere e di controllo – in Europa quanto in America – contro determinate popolazioni “non libere”. Ciò che cambia sono i regimi legali attraverso i quali le persone fuggono da determinate questioni politiche ed economiche – chiunque si fosse incrociata con gli studi marxisti capirebbe quanto è complessa, giacche l’oppressione economica è una oppressione evidentemente politica. Pertanto, è importante sottolineare che una delle controversie fondamentali nel mondo contemporaneo è proprio quella della libertà di movimento e diventa molto problematico pensare al rifugio senza pensare alla libera mobilità e ai confini, in quanto tutte le persone che fuggono da certe condizioni dovrebbero vedersi garantito l’accesso al diritto alla libera circolazione. Sappiamo che non è così, poiché la libertà di movimento è estremamente politicizzata e razzializzata a livello globale. Basterebbe vedere una mappa dell’imposizione dei visti tra i paesi a maggioranza bianca, per vedere chi è soggetto e in quale forma gerarchica si presenta la sovranità politica. La popolazione afrodiscendente colombiana dichiara che la questione razziale è molto sentita soprattutto nei luoghi di sociabilità e nell’accesso ai servizi pubblici. La sensazione di insicurezza che emana l’Ecuador è, in generale, additata quasi esclusivamente alla presenza dei cittadini stranieri, ai venezuelani nelle forme più aggressive, accusati di delinquere in un Paese che, invece, non riesce a tutelarsi dalla violenza che incombe a livello politico, similmente a quanto accade in Europa.
Ciononostante, non credo affatto che il confronto tra diverse aree geografiche e mobilità sia lo strumento che ci aiuti di più a pensare a ciò che accade nei diversi territori di frontiera e a capire le migrazioni internazionali, come può fare, piuttosto, verificare le somiglianze tra i vari Paesi a maggioranza bianca, considerato che la razzializzazione, ad esempio in Meso e Sud America, può sembrare meno immediata, dato che la maggioranza della popolazione, è meticcia. In questo caso specifico, l’analisi da adottare dovrebbe soffermarsi maggiormente a come si conforma l’immaginario della popolazione dominante, al di là di come comprendiamo la questione razziale. Inoltre, pensare alla questione razziale è urgente al di là di certa “corporeità” che siamo abituati a pensare, perché questo non ci aiuterebbe a concepire le migrazioni a livello globale e alle loro particolarità, e proprio perché questo immaginario razziale ci attraversa così tanto profondamente, come quando si parla di frontiere, asilo e rifugiati, da non sapere di cosa stiamo parlando. In questo senso sarebbe interessante capire come il migrante, quindi, diventi in sé una categoria politicizzata e razzializzata a sé stante, oltre ogni caratteristica biologica. Per queste ragioni è da incoraggiare senza dubbio un’analisi critica delle migrazioni e degli spazi di transito e di frontiera, per decostruire le categorie dei fenomeni migratori che relegano le persone a mere vittime o carnefici, e la violenza che si dimena contro essi.
Chiudiamo l’incontro con la testimonianza di storie di vita inerenti alla personale rotta migratoria. A. ci racconta del proprio progetto, forzoso, in quanto fuggita dal paese insieme ai suoi tre figli, per situazione di sequestro. Non fu affatto impresa facile camminare tra la selva fino a raggiungere la città di Quito. In città non ha trovato il ristoro di cui godeva a Bonaventura, località marittima di cui conserva i ricordi più belli: “Tante cose, tante cose!” ammette per non estendersi molto sul dolore che porta dentro. “Esce il corpo, ma non anima”, continua sospirando. Porta con sé la famiglia, la musica, il vento e il mare, quel mare che ogni giorno si riempiva di balene e delfini. Ma ringrazia il suo Signore di essere li. Mostra un disegno tra le mani: “Sono viva” riporta.
Alle politiche di morte che costringono migliaia di persone a esporsi in cammino tra una situazione di pericolo e l’altra, i camminanti rispondono con la vita. Sono Vivi!
Valentina Delli Gatti, Casco Bianco con FOCSIV a Quito, Ecuador.
[1] https://twitter.com/lenin/status/1087051666669617153?lang=en
[2] Visto di eccezione per ragioni umanitarie (Verhu) per venezuelani