Intervista a Gianfranco Cattai, presidente Focsiv: «L’Italia deve fare di più per la cooperazione internazionale»
Non è solo questione di alzare la soglia minima attuale di spesa, ma di cambiare registro culturale perché da soli nessuno si salva. Tanto meno in un mondo interconnesso dove la sfida immigrazione va raccolta senza ipocrisia.
L’intervista di Carlo Di Cicco a Gianfranco Cattai, presidente FOCSIV, sull’Osservatorio Riparte l’Italia.
Nell’altra faccia dell’umano, quella opposta al populismo, dove in un mondo interconnesso si creano ponti anziché muri, c’è da annoverare la Focsiv. Una sigla che, per esteso, occupa una riga e tuttavia non sufficiente a contenere una storia di quasi 50 anni vissuti tra utopia e solidarietà responsabile, con la propria vita messa in gioco per gli altri e così facendo procurarsi felicità.
La Federazione degli Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario (Focsiv) è qualcosa di “unicum” nata nel 1972 sotto la spinta ideale dell’enciclica di Paolo VI sullo sviluppo dei popoli (Populorum progressio -1967), rilanciata come pienamente attuale dalla Laudato si’ di Francesco, il papa dell’ecologia integrale. Nell’orizzonte culturale ampio di queste due encicliche, liberi da clericalismi ecclesiastici e laici, i volontari della Focsiv hanno potuto misurare con quanto anticipo sul proprio tempo queste due encicliche abbiano indicato prospettive ancora in attesa di politiche solidaristiche, capaci di realizzare un mondo diverso e nuovo.
Oggi fanno parte della Focsiv 87 organizzazioni che operano in oltre 80 paesi del mondo. Dalla sua nascita Focsiv e i suoi Soci “hanno impiegato 27.000 volontari internazionali e giovani in servizio civile che hanno messo a disposizione delle popolazioni più povere il proprio contributo umano e professionale. Un impegno concreto e di lungo periodo in progetti di sviluppo nei settori socio-sanitario, agricolo-alimentare, educativo-formativo, di tutela dell’infanzia e dell’adolescenza, di difesa dei diritti umani e della parità di genere, di rafforzamento istituzionale”. E’ anche grazie alla Focsiv che la parola cooperazione internazionale fa pensare a una dimensione non solo di mercato ma dialogica e di scambio giusto e paritario tra popoli.
Di questo mondo cooperativo e del suo laboratorio di solidarietà, Ripartelitalia.it ne ha parlato in esclusiva con Gianfranco Cattai da quasi 9 anni Presidente della Focsiv.
Leggendo la visione e la mission della Focsiv si può avere la sensazione di vivere in un mondo troppo bello per essere vero, ma considerando la difficile, conflittuale e ingiusta condizione nei diversi continenti, nasce la convinzione che realtà come la Focsiv e i suoi Soci siano un bene per tutti. La loro visione può aiutare a guarire le ferite delle persone e dell’ambiente. Questi volontari operano per “un mondo di giustizia, di pace e di fraternità tra le comunità e i popoli. Un mondo da costruire insieme, nel rispetto del creato, nel quale ogni persona, possa realizzarsi in piena dignità”.
Intervistando Cattai, partendo dall’attuale condizione di pandemia, si ha l’impressione che davvero un mondo diverso e più gusto sia possibile concretamente. A una condizione: mettendo in campo politiche nazionali e internazionali diverse da quelle finora seguite. Non più ciascuno per sé, ma insieme ciascuno per tutti.
“Anche in un tempo di pandemia la cooperazione internazionale allo sviluppo non è solo una questione primaria è una questione essenziale per la giustizia e la pace. Con la pandemia abbiamo scoperto gli aiuti di Cuba, Albania, Cina, Russia e molti altri paesi verso l’Italia così come molte associazioni di immigrati che si sono autotassate per dare i propri contributi alla protezione civile, infermieri stranieri immigrati che assieme agli autoctoni hanno speso la loro vita per gli italiani.
Insomma abbiamo scoperto che cooperazione significa solidarietà, reciprocità, trovare assieme soluzioni e abbiamo visto come ce ne voglia molto di più. La stessa Unione europea ha mostrato molti limiti nella cooperazione sanitaria così come l’Organizzazione mondiale della sanità.
La pandemia in un villaggio globale ci ha insegnato che la cooperazione è essenziale, il multilateralismo va rafforzato, da soli non ci si salva. L’Italia, settimo paese industrializzato al mondo, è tra quelli che contribuisce meno alla cooperazione allo sviluppo e questo va di pari passo con una politica estera debole”.
Quale utilità occorre riconoscere alla cooperazione per una giusta soluzione efficace della questione immigrazione?
Chi fa cooperazione da decenni sa molto bene che il facile slogan “aiutiamoli a casa loro” affinché non vengano a casa nostra, oltre che facile è sbagliato. Non sono solo le nostre esperienze, ma anche le analisi scientifiche e la storia che ci insegnano come con più sviluppo nei paesi impoveriti, le migrazioni aumentano, non diminuiscono.
Le migrazioni sono un fattore strutturale; tutti lo dicono, pochi elaborano il concetto. La cooperazione allo sviluppo ha un suo preciso fine che è la lotta alla povertà e non il controllo delle migrazioni. Semmai ci vuole più cooperazione sul governo delle migrazioni, che non è cooperazione allo sviluppo ripetiamo, e cioè cooperazione tra gli Stati di origine, transito e destino, per regolare in sicurezza e con ordine le migrazioni.
Per la prima volta nella storia, due anni fa, è stato siglato con le Nazioni Unite un Patto Globale sulle Migrazioni (Global Compact on Migration), ma guarda caso, l’Italia è stata uno dei pochi paesi al mondo che non lo ha firmato per cecità e stupidità politica, perché ossessionato da paure strumentalizzate a fini elettorali, introvertito nella provincia italiana, dimentico che le migrazioni sono un fenomeno internazionale e va, quindi, gestito con una cooperazione internazionale.
Senza cooperazione tra Stati per regolare i flussi dei richiedenti asilo, dei lavoratori, delle famiglie, dei ricercatori e studenti, dei professionisti e degli imprenditori e così via. Ciò non significa aprire le porte indiscriminatamente ma cooperare per negoziare e ordinare le migrazioni tra Stati.
È fondato il dubbio che la cooperazione internazionale sia prevalentemente un business per coloro –volontari o imprese – che la sostengono e praticano?
Non capisco come i volontari siano un business se sono volontari! Sia chiaro: il volontariato non guadagna, non fa profitto sulle disgrazie altrui, è tempo dedicato gratuitamente o con stipendi quelli dei cosiddetti cooperanti, adeguati al rischio a cui vanno incontro e alle professionalità che, assicurano. Moltissimi sono giovani e donne. Chi gestisce il volontariato lo fa con lo stesso spirito. Sono pochissimi i casi di ONG poco oneste. Il mondo della cooperazione del terzo settore è una grande risorsa per l’Italia e per i paesi con cui si coopera.
Viceversa occorra fare molta più attenzione sul versante delle imprese. Non perdiamo la memoria, gli scandali della cooperazione delle imprese agli inizi degli anni ’90 sono stati un pezzo di mani pulite. La cooperazione allo sviluppo non può essere piegata agli affari. La nuova legge della cooperazione apre alle imprese ma a quelle che coniugano con correttezza profitto e sviluppo sostenibile, lotta alla povertà, salvaguardia dell’ambiente, innovazione. Apre soprattutto alle nuove imprese che vanno oltre il concetto del profitto fine a sé stesso come la Benefit Corporation.
Perché gente comune, alle prese con la sopravvivenza quotidiana o con la fatica di far quadrare i bilanci familiare per giungere alla fine del mese, dovrebbe interessarsi alla cooperazione in favore di persone e realtà sociali di paesi lontani?
Ovviamente per chi non riesce ad arrivare a fine mese è difficile abbia tempo da dedicare alla cooperazione! Tuttavia, molti si dedicano al volontariato tra vicini. La solidarietà non è solo un dovere, ma, soprattutto, una scelta umana per una società più coesa, più fraterna, meno cattiva e competitiva. Molte persone, soprattutto giovani e donne, dedicano il volontariato anche alla cooperazione internazionale. Perché la solidarietà non ha confini. È apertura al vicino e al lontano. È voglia di conoscere, di apprendere, di scambiare, di crescere. Tutto il contrario della sottocultura della chiusura che atrofizza e abbrutisce. La cooperazione arricchisce innanzitutto umanamente. Il suo richiamo continua a riverberarsi anche in momenti di crisi.
Quanto incide lo spirito alla base della cooperazione volontaria allo sviluppo per una evoluzione solidaristica nell’attuale politica internazionali dell’Europa e dell’Italia in particolare?
Ad oggi incide poco. La politica italiana ha sempre capito poco della cooperazione, poiché non l’ha mai praticata, non la conosce ed è vittima dei suoi pregiudizi. Pochi personaggi politici ne hanno riconosciuto la rilevanza e necessità. Tra questi Prodi che, dopo aver fatto l’inviato speciale dell’ONU per il Sahel, in un incontro ha affermato come abbia trovato l’Italia in Africa grazie alla presenza delle migliaia di volontari e associazioni di cooperazione. Una presenza diffusa e discreta che costruisce nel silenzio relazioni umane, di scambio, di crescita sociale ed anche economica. Ecco tutto questo non viene valorizzato dalla politica e, quindi, lo Stato italiano ha poco peso a livello internazionale. L’Italia del volontariato, della cultura, la bella Italia, è conosciuta e apprezzata nel mondo, meno lo Stato.
E in termini di spesa pubblica? C’è una vostra proposta?
È dagli anni ’70 del secolo scorso che i paesi delle Nazioni Unite, quindi anche l’Italia, si sono impegnati a raggiungere lo 0,7% – ripeto 0,7 – del reddito nazionale lordo per la cooperazione. L’Italia si è sempre barcamenata attorno allo 0,2 in media. Contiamo poco nel consesso internazionale. Quasi tutti i governi promettono di aumentare. Pochi hanno fatto qualcosa arrivando allo 0,3 o poco di più. Insomma noccioline! Più cooperazione, oggi necessaria, richiede più investimenti, c’è poco d fare. Il fondo per la ripresa dovrebbe guardare anche alla cooperazione, perché più ripresa richiede più cooperazione internazionale, più relazioni, più scambi nel segno dello sviluppo sostenibile, e quindi anche più cooperazione allo sviluppo. Se diamo, riceviamo. Se chiudiamo, ci destiniamo alla irrilevanza e alla decadenza.