La oropéndola crestada
Mentre scrivo è sera, qualche vicino sta ascoltando il solito vallenato (genere musicale tipico), i cani abbaiano e le mie compagne stanno chiacchierando in cucina. È una classica sera tranquilla nella casita, in quella che ora è la mia intricata e meravigliosa routine colombiana e, mentre ci penso, sorrido. Ricordo il primo giorno che sono arrivata e lo rileggo nella mia prima testimonianza. Mi sentivo sospesa, come se non riuscissi a sentire nessuna emozione concreta. Guardavo il quartiere che mi avrebbe ospitato per un anno in maniera distaccata, ascoltavo le persone parlare con la loro cadenza paisa che mi rendeva difficile la comprensione e osservavo le mie compagne senza sapere cosa aspettarmi da loro e da me stessa. Ripensare a tutto questo mi fa rendere conto quanto intensi e lunghi siano stati questi otto mesi e, nonostante tutto, tiro un sospiro di sollievo nel pensare che me ne mancano ancora altri tre per godere di quello che mi circonda.
Non è facile, all’inizio, almeno no lo è stato per me. La prima volta che sono riuscita a piangere per scaricare un po’ la tensione sono finalmente riuscita a staccarmi da questa sospensione e ad entrare in contatto con le mie emozioni: è stato liberatorio. Partire per un anno in un contesto nel quale devi metterti alla prova in ambito professionale e umano lontano da tutti i tuoi affetti non è facile. La cosa più difficile per me è stata lo stare lontana da casa mentre la mia famiglia stava vivendo periodi difficili o mentre i miei amici affrontavano tappe della vita importanti. È stata dura dover adattarmi a un contesto che, almeno all’inizio, non permette una completa privacy, in cui sei costantemente insieme a qualcuno e non riesci a trovare momenti di solitudine in cui raccogliersi. È stato difficile dover avere a che fare con le proprie insicurezze e con le proprie aspettative nel dover essere sempre più brava, più efficiente, più capace, più intelligente. Nonostante tutto, ho sempre avuto fiducia che tutto sarebbe andato bene, che tutto poco a poco sarebbe migliorato e ho sorriso quando ho riletto questa parola, fiducia, nella mia prima testimonianza.
Senza le mie compagne non sarebbe stato lo stesso. Grazie a loro ho imparato a gestire i conflitti, a comunicare in maniera non violenta, ad essere una buona amica e collaborare e a progettare in gruppo. Il contesto casalingo è stato il primo in cui ho davvero sviluppato una grande crescita umana. Vivere, lavorare e viaggiare con tre persone diverse da me e diverse tra loro, trovando un’armonia e un’alleanza così forte e solida è uno dei risultati migliori che porterò a casa.
Non sono state le difficoltà in sé a farmi crescere, ma il modo in cui ho imparato ad affrontarle insieme agli altri. I conflitti con i propri compagni, con l’OLP, con il partner locale, con il contesto culturale, con i bambini stessi, sono stati sempre occasione di riflessione importanti, così come lo sono stati i mille progetti e le mille idee iniziali che poi non sono state compiute. Da quest’ultime, in particolare, ho imparato a rendermi conto di quanto a volte si pecchi nell’ambito della progettazione partecipata. Un errore comune è infatti quello di progettare interventi nel territorio all’interno del proprio ufficio con persone che quel territorio lo vivono solo da pochi mesi, senza coinvolgere affatto la comunità al quale questo intervento dovrebbe essere indirizzato e quindi costruendo obiettivi completamente avulsi dal contesto. Io stessa ho portato avanti a volte idee che poi sfumavano nel nulla nel momento in cui si scontravano con la realtà che aveva già ben altri strumenti molto validi ed efficaci e che rendevano superfluo il mio intervento.
Ascoltare, parlare, informarsi, chiedere, è un lavoro di valutazione che non finisce mai, è un lavoro costante che evita di dare le cose per scontato, di agire guidati solo ed esclusivamente dalle proprie impressioni. Ci sto riflettendo tanto in questi mesi dove si può cadere più facilmente in tali errori perché ci si sente più sicuri di sé, più lanciati, più tranquilli. Tante volte sono i bambini a ricordarmi di fermarmi a riflettere e di ascoltare prima di agire. A volte, ad esempio, cado ancora nell’ “effetto pigmalione” dove tendo a trattare alcuni bambini in un certo modo perché già prevenuta, senza dargli la possibilità di esprimersi, di spiegarsi e senza darmi la possibilità di capire davvero quello che sta accadendo, rinforzando in loro l’etichetta di “bambini difficili”. Quello con i bambini/e e le ragazze/i è un lavoro costante di ascolto e osservazione. I loro modi di comunicare sono molteplici e non è facile comprendere il loro linguaggio. Quando sono aggressivi, silenziosi, distanti, quando sono agitati, euforici, estremamente affettuosi, ci stanno comunicando qualcosa e in un ogni gesto o mancato tale si cela un messaggio che non sempre siamo in grado di capire o gestire.
Il lavoro dell’educatrice e dell’educatore qui al Centro Giovanile è attraversato da storie e informazioni che a volte lasciano inermi e attoniti. Sono stati questi casi però che mi hanno permesso di riflettere molto su un ulteriore aspetto fondamentale riguardo a questo lavoro: saper distinguere bene tra la propria figura professionale e quella altrui, senza improvvisarsi terapeuti o figure genitoriali. L’educatrice e l’educatore, stando sul campo, riescono a conoscere e a fare da tramite tra i ragazzi, le ragazze e le figure professionali che possono aiutarli ed è fondamentale lavorare in un contesto dove queste figure siano presenti e pronte ad intervenire.
A distanza di otto mesi le mie sensazioni sono molto cambiate. Col tempo si impara a camminare da soli, a viaggiare e a godersi la libertà e i paesaggi colombiani che sono tra i più belli che i miei occhi mi abbiano mai regalato; col tempo i timori lasciano spazio al calore dei continui “profe, profe, profe!” che sebbene a volte siano troppi e non sai da che parte girarti, sono il segno di un legame che è venuto a crearsi col tempo e la cura.
Un anno di servizio civile ha un tempo tutto suo. Qui tutto si restringe e si dilata in maniere inusuale e già inizio a immaginarmi a quando sarò in Italia a pensare con nostalgia a tutti questi posti e questi visi che mi hanno emozionata con la stessa sincerità di quando ero bambina, a pensare allo stupore che ho sentito il primo giorno quando, per la prima volta, ho sentito il verso dell’oropéndola crestada, a quando sono rimasta immobile tra il silenzio imponente della Sierra Nevada o a quando L. ha messo in atto spontaneamente le strategie di lettura che abbiamo insegnato durante l’appoggio scolastico per leggere una frase in classe.
La musica si spegne, i vicini sono magnanimi e stasera ci lasceranno dormire.
Imposto la sveglia, domani si costruiscono nuovi ricordi.
Giulia Piscitelli, Casco Bianco con Engim in Colombia