L’accordo Unione Europea – Turchia lede i diritti umani
Fonte Mauricio Lima for The New York Times: Turkey’s Radical Plan: Send a Million Refugees Back to Syria – The New York Times (nytimes.com)
Parte 1: La Turchia
Ufficio Policy Focsiv – Nel quadro dell’attenzione verso la politica di esternalizzazione europea del controllo e contenimento dei migranti, pubblichiamo di seguito la prima parte di un articolo di Martina Riccardi, laureanda in Politics and Policy Analysis presso l’Università Bocconi, estratto dalla sua tesi intitolata: “Human Rights vs Border Security Outsourcing: the Cascade Effect of the EU-Türkiye Deal”.
L’analisi dei documenti ufficiali e di ricerche mostra una situazione grave per i diritti umani dei richiedenti asilo e rifugiati in Turchia, per lo più sottaciuta dai media abituati a focalizzare l’attenzione sulle presunte “invasioni” dei migranti all’Europa. È quest’ultima una visione e narrativa distorta e fallace dimentica delle reali condizioni inumane dei migranti, tra cui molti bambini, costretti a vivere in paesi come la Turchia considerati “sicuri” dall’Unione europea o dai suoi stati membri. Nel 2015 la Turchia, che già ospitava oltre tre milioni di migranti (per lo più iraniani, curdi iracheni, rifugiati dai Balcani e afghani), è stata la meta di un’immigrazione di massa soprattutto dalla Siria. Nel 2019 l’UNHCR ha stimato che circa 1,4 milioni di rifugiati in Turchia hanno meno di 15 anni e oltre 800.000 hanno tra i 15 e i 24 anni.
Secondo gli ultimi dati diffusi dalla Turkish Presidency of Migration Management per il mese di gennaio 2023, la Turchia conta oltre 5,2 milioni di immigrati. Di questi, 3,9 milioni hanno richiesto la protezione internazionale, di cui la maggioranza, pari a 3,5 milioni, sono siriani. Gli altri richiedenti protezione includono principalmente cittadini afghani, iracheni e iraniani, con numeri significativamente inferiori, ed in misura minore pakistani, bengalesi, turkmeni e uzbeki.
D’altro canto, dall’inizio della crisi migratoria del 2015, l’Unione Europea ha cercato modi – più o meno espliciti – di bloccare i flussi che arrivavano verso i suoi confini. Nel 2016 questi sforzi sono culminati nell’Accordo tra Europa e Turchia, che ha segnato il solco per le successive politiche di esternalizzazione della gestione dell’immigrazione.
L’Accordo UE-Turchia, stipulato a Marzo 2016, mirava ad arginare il flusso di immigrazione irregolare verso l’Unione europea, in particolare attraverso il Mar Egeo. Di fatto, è stato inizialmente presentato come una soluzione pragmatica alla crisi migratoria, inquadrata nel più ampio impegno per i diritti umani che sia l’UE che la Turchia apparentemente condividono. Sebbene l’accordo sia stato acclamato come un trionfo politico in termini di riduzione del numero di migranti che raggiungono le coste europee, il suo successo complessivo è certamente discutibile e il suo impatto sui diritti umani merita un esame approfondito.
Diverse organizzazioni umanitarie hanno documentato gli effetti disastrosi di questo Accordo, che si fonda sull’erroneo presupposto che la Turchia sia un “paese terzo sicuro” e che quindi, secondo le normative europee, oltre che in ragione di una interpretazione molto limitata della Convenzione sullo status dei rifugiati del 1951, le richieste d’asilo di individui che siano passati o provengano dalla Turchia sono di fatto inammissibili. Questa premessa è stata tuttavia smentita da diversi report di organizzazioni umanitarie che illustrano molteplici problematiche legate alla definizione di Turchia come paese sicuro.
In primo luogo, un Paese non può essere considerato “sicuro” se viola il principio di non-refoulement, che vieta il trasferimento di persone in paesi in cui potrebbero correre rischi significativi per i diritti umani. Una ricerca di Amnesty International indica che la Turchia è solita rimpatriare richiedenti asilo e rifugiati in paesi dove corrono tali rischi, tra cui Afghanistan, Iraq e Siria. Gli studi esistenti sul quadro dei diritti umani in Turchia hanno rivelato che il paese non rispetta le leggi dell’UE ed internazionali in materia di effettiva protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati.
In secondo luogo, i richiedenti asilo e i rifugiati sono spesso alle prese con incertezze legali. La Turchia mantiene la cosiddetta limitazione geografica alla ratifica della Convenzione sui rifugiati del 1951, il che significa che solo le persone che fuggono a causa di “eventi che si verificano in Europa” possono ottenere lo status di rifugiato. Pertanto, limita il pieno status giuridico ai rifugiati provenienti solo dall’Europa o ai migranti che rientrano nel suo quadro di protezione temporanea. Nello specifico, i rifugiati siriani sono ospitati nell’ambito di un sistema di “protezione temporanea“, mentre molti altri, tra cui iracheni e afghani, non godono nemmeno di questo status, pur provenendo anch’essi da paesi che in cui i diritti umani non vengono rispettati. Nonostante tali vincoli non costituiscano direttamente un danno grave, essi aggravano la vulnerabilità e contribuiscono a creare un clima sfavorevole per i diritti umani. Inoltre, il giovane sistema di asilo turco è sovraccarico e incapace di gestire in modo efficiente l’elevato numero di domande individuali. I richiedenti asilo e i rifugiati in Turchia non hanno accesso immediato a soluzioni sostenibili, come indicato dall’UNHCR , quali il rimpatrio in condizioni di sicurezza, l’integrazione locale o il reinsediamento in Paesi terzi.
In terzo luogo, il trattamento riservato dalla Turchia ai richiedenti asilo e ai rifugiati detenuti è preoccupante. I richiedenti asilo registrati possono trovarsi in detenzione per violazioni come il mancato rispetto delle procedure previste per i richiedenti asilo non europei, l’aver lasciato senza autorizzazione le “città satellite” – ovvero le città designate dove i rifugiati e i richiedenti asilo sono tenuti a risiedere – o il tentativo di entrare in Grecia senza una documentazione adeguata. Le condizioni di detenzione possono essere inumane o degradanti.
Di fatto, i richiedenti asilo e i rifugiati in Turchia non hanno accesso sufficiente ai beni di prima necessità per mantenere uno standard di vita adeguato. Con il governo che non riesce a soddisfare i bisogni di base, come l’alloggio, e le significative barriere all’autosufficienza, la Turchia non è in grado di fornire un ambiente in cui i richiedenti asilo e i rifugiati possano vivere con dignità. Infatti, anche se la Turchia ha concesso ai siriani il diritto di lavorare a partire dalla metà di gennaio 2016, pochi sono riusciti a ottenere il permesso di lavoro e la maggior parte di quelli impiegati lavora nel settore informale. Inoltre, i non siriani non hanno ancora il diritto di lavorare nel Paese, e il lavoro minorile è un problema serio, come sottolineato da diverse agenzie delle Nazioni Unite. Un’indagine del 2015 che ha coinvolto più di 700 rifugiati siriani a Istanbul ha rivelato che la ragione principale per cui i bambini non frequentano la scuola è la necessità di lavorare per sostenere economicamente la famiglia (26,6%), seguita dall’incapacità della famiglia di coprire le spese scolastiche (20,3%).
Infine, è alto il rischio di violenza indiscriminata in mezzo al conflitto in corso tra lo Stato turco e i ribelli curdi per i richiedenti asilo e i rifugiati nelle aree interessate. Il conflitto si è intensificato nel sud-est del paese, con intensi combattimenti urbani tra i ribelli curdi e le forze governative, aumentando significativamente il rischio di danni per i migranti e i richiedenti asilo che risiedono in queste regioni o nelle loro vicinanze. Inoltre, l’atmosfera prevalente di xenofobia nei confronti dei rifugiati siriani intensifica il potenziale di violenza. Pertanto, data l’escalation del conflitto armato interno e le questioni sopra citate, è evidente la necessità di riconsiderare attentamente la designazione della Turchia come paese terzo sicuro per migranti e rifugiati.
E’ importante notare che mentre l’Accordo UE-Turchia è stato sottoscritto dal Consiglio europeo il 18 marzo 2016, da allora l’Unione europea ha negato di essere parte dell’accordo, sostenendo come esso intercorra tra la Turchia e i singoli stati membri, in particolare la Grecia. A questo proposito, la Corte di giustizia europea ha declinato la propria giurisdizione sull’accordo in quanto la dichiarazione non è stata riconosciuta come atto dell’UE. Esaminando alcune circostanze relative ai negoziati, la Corte ha dedotto che tutti gli indicatori del coinvolgimento diretto del Consiglio (come gli ordini del giorno, gli inviti, le presenze e i verbali) erano in realtà atti attribuibili ai singoli stati membri. Inoltre, l’uso del termine “UE” e la pubblicazione della dichiarazione sul sito web del Consiglio sono stati interpretati come misure volte esclusivamente alla semplicità della comunicazione rivolta ai media. Pertanto, secondo la Corte, non è stata presentata alcuna prova a sostegno del fatto che la dichiarazione sia stata rilasciata dall’UE. Questa negazione è stata ampiamente criticata dagli esperti legali. Tuttavia, la natura informale dell’Accordo e l’assenza di ricorso alla legge e agli strumenti tipicamente legali consentono questo tipo di facile autoassoluzione, che alla fine è ciò che ha permesso l’effetto a cascata sui diritti umani.
Infine, come accennato, l’accordo ha avuto anche la conseguenza non voluta di reindirizzare i flussi migratori verso percorsi più rischiosi, in particolare spostando il traffico dal Mar Egeo alla rotta del Mediterraneo centrale, ancora più pericolosa. L’accordo ha quindi di fatto esternalizzato i controlli alle frontiere dell’UE verso regioni meno stabili, contribuendo così indirettamente a una cascata di sfide per i diritti umani che vanno ben oltre i confini dell’UE e della Turchia, estendendosi a Libia, Tunisia, Egitto e al resto del Nord Africa.
L’Accordo UE-Turchia ha quindi solo in parte consentito all’Unione Europea di esercitare un miglior controllo sui flussi migratori. E questo “risultato” ha avuto un costo significativo in termini di diritti umani. Dai rimpatri forzati che violano il principio di non-refoulement senza alcuna tutela legale alle condizioni disumane di detenzione arbitraria e alle gravi violazioni dei diritti dei minori, l’accordo solleva questioni etiche e legali che non possono essere ignorate, come le condizioni di vita inadeguate negli hotspot che simboleggiano una crisi umanitaria all’interno dei confini europei.
Sitografia
- Amnesty International. (2017). “A blueprint for despair: Human rights impact of the EU-Turkey deal”. Disponibile online: https://www.amnesty.org/en/documents/eur25/5664/2017/en/.
- Amnesty International. (2021). Turkey: No safe refuge: Asylum-seekers and refugees denied effective protection in Turkey. Amnesty International. Disponibile online: https://www.amnesty.org/en/documents/eur44/3825/2016/en/.
- Human Rights Watch. (2017). “World Report 2017”. Disponibile online: https://www.hrw.org/world-report/2017.
- International Rescue Committee. (2022). “What is the EU-turkey deal?”. Disponibile online: https://www.rescue.org/eu/article/what-eu-turkey-deal.
- Terry, K. (2021). “The EU-Turkey deal, five years on: A frayed and controversial but enduring blueprint”. Migration Policy Institute. Disponibile online: https://www.migrationpolicy.org/article/eu-turkey-deal-five-years-on.
- United Nations High Commissioner for Refugees (UNHCR). (2019). Turkey Fact Sheet July 2019. Disponibile online: https://reliefweb.int/report/turkey/unhcr-turkey-fact-sheet-july-2019.