Le disuguaglianze ambientali
Pubblichiamo il contributo di Andrea Stocchiero, ufficio policy FOCSIV, per il sito della campagna Chiudiamo la Forbice di cui la Federazione è tra i promotori nazionali.
Solitamente quando si parla di disuguaglianze ambientali si fa riferimento ad almeno tre grandi concetti, quelli di giustizia climatica, debito ecologico, e giustizia intergenerazionale.
Il concetto di giustizia climatica evidenzia il fatto che chi impatta di più sul cambiamento climatico dovrebbe sopportarne di più i costi di mitigazione e adattamento. I paesi del Nord, quelli più ricchi, con stili di vita che si traducono in grandi emissioni di gas ad effetto serra, dovrebbero urgentemente modificare i modelli di produzione e di consumo, mitigando le emissioni e sostenendo i costi di adattamento in particolare di chi subisce le conseguenze più gravi dei cambiamenti climatici, ovvero i paesi più poveri tropicali e delle aree predesertiche, le isole, le comunità vulnerabili. Paesi e comunità, questi, che causano ben poco del riscaldamento globale e che sono meno in grado di finanziare la propria resilienza. Far fronte alla giustizia climatica significa quindi realizzare una grande misura di redistribuzione del reddito a livello internazionale, dal Nord al Sud, per sostenere le capacità dei paesi impoveriti di adattarsi e procedere a cambiamenti infrastrutturali e produttivi più ecologici.
Al concetto di giustizia climatica è strettamente legato quello di debito ecologico. Si tratta di un debito storico che ancora si sta accumulando tra paesi ricchi e poveri. I paesi del Nord sono debitori nei confronti di quelli del Sud non solo a causa delle crescenti emissioni di carbonio cominciate duecento anni fa con la rivoluzione industriale, ma anche della depredazione di risorse naturali avvenuta con il colonialismo e l’imperialismo, e che ancora si produce attraverso forme neocoloniali come il land grabbing. I paesi del Sud hanno quindi maturato un credito che dovrebbe essere restituito, ma che in gran parte non potrà mai essere restituito: lo scandalo della schiavitù e tutte le risorse naturali finite e non riproducibili o difficilmente ripristinabili (le terre e acque morte, le foreste originarie distrutte, le biodiversità estinte) testimoniano un passato tragico, di cui purtroppo si perde troppo facilmente la memoria. E’ “il fardello dell’uomo bianco” che si occulta con il perpetuarsi del racconto di un progresso senza limiti.
Se il debito guarda al passato il concetto di giustizia intergenerazionale si situa nel presente e nel futuro. Le attuali e future generazioni non avranno più la possibilità di godere della bellezza della natura, e dei suoi frutti, in molti luoghi del nostro pianeta. L’inquinamento, il degrado ambientale, la cumulazione di rifiuti nella terra e negli oceani, fiumi e mari, la scomparsa di foreste ancestrali, la drammatica riduzione della biodiversità, hanno impoverito il pianeta in modo irreversibile. I nostri figli vivranno in un mondo meno vivibile e ricco di quello dei nostri nonni. Di qui l’origine del termine sostenibilità che si riferisce a una prospettiva temporale di mantenimento di condizioni ambientali uguali a quelle attuali. Il nostro modello di sviluppo è insostenibile perché sta erodendo il pianeta e quindi riducendo la possibilità delle nuove generazioni di vivere potendo usufruire delle risorse naturali esistenti in precedenza.
Negli ultimi anni si sta cercando di approfondire l’analisi, che può andare oltre le grandi scale tra nord e sud, tra generazioni passate, attuali e future, con uno studio delle disuguaglianze che affianca alla visione macro internazionale quella più nazionale e locale.
Infatti, la crisi economica, gli effetti delle politiche di liberalizzazione e privatizzazione dei beni comuni insieme agli effetti dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici stanno acuendo la disuguaglianza legata a fattori ambientali anche in Italia[1]. E’ una disuguaglianza che agisce in modo sinergico con le disuguaglianze territoriali, di reddito, di istruzione e di accesso alle informazioni.
In Italia non esiste un indicatore composito sulla disuguaglianza ambientale, che potrebbe essere intesa come le differenze nella fruibilità e qualità dei beni ambientali e naturali a cui si ha accesso, come la diversa opportunità delle persone di poter godere della bellezza del paesaggio, il diverso impatto dei disastri e del degrado ambientale sui territori e sulla società, la distribuzione sociale delle perdite del capitale naturale e dell’accesso ai servizi eco-sistemici[2].
Probabilmente il fattore più emblematico è rappresentato dagli effetti dell’inquinamento industriale; industrie che quasi sempre sono state impiantate in aree periferiche o limitrofe a quartieri operai e popolari o intorno a cui sono proliferati i nuovi quartieri popolari, al nord come al sud Italia, a Taranto, Gela e Priolo-Augusta come a Marghera o Brescia. Mentre lo stato delle bonifiche dei siti industriali contaminati, 180.000 ettari, è ancora al palo e sono sempre gli stessi gruppi sociali a pagarne le conseguenze[3].
A Taranto[4], ad esempio, lo studio epidemiologico Sentieri[5] ha evidenziato come gli eccessi di mortalità, riscontrati in tutto il territorio comunale, riguardino maggiormente i quartieri più vicini alla zona industriale (dove è presente lo stabilimento Ilva), generalmente abitati da fasce sociali più deboli. Lo studio inoltre conferma il contributo della deprivazione socioeconomica all’aumento del tumore polmonare. I dati mostrano un costante peggioramento della situazione ambientale e dei suoi effetti sociali e sulla salute, perché ai vecchi siti e ai vecchi impianti che hanno prodotto e continuano a produrre inquinamento, si sono nel corso degli anni aggiunti nuovi fenomeni come lo smaltimento illegale dei rifiuti (non c’è solo la Terra dei Fuochi, in Campania[6]) o il recente caso dell’inquinamento da PFASS delle falde acquifere in tre province del Veneto.
Ma il fenomeno delle disuguaglianze ambientali non si limita al fatto che i ceti sociali più deboli sono quelli più esposti agli effetti dell’inquinamento. In campo energetico, ad esempio, stiamo assistendo a due fenomeni che in modo sinergico colpiscono le fasce più deboli. Il primo fenomeno riguarda l’impossibilità per queste fasce di godere dell’accesso alla riqualificazione energetica delle abitazioni e alle fonti rinnovabili perché il meccanismo della detrazione fiscale esclude le famiglie incapienti. Secondo i dati ENEA, sugli investimenti fatti nel 2017, che hanno usufruito degli incentivi del 65%, c’è una stretta relazione tra il Pil pro capite di un dato territorio regionale e gli investimenti per abitante. A fronte di una media nazionale di 60 € per abitante tutte le regioni del Sud si collocano sotto questa media con punte minime di 18 €/ab in Sicilia e di 20 €/ab in Campania e Calabria. Le punte massime si registrano in Trentino Alto Adige con €158/ab, in Piemonte con €115/ab, in Emilia Romagna con €100/ab.
Il secondo fenomeno riguarda l’affermazione di una nuova forma di povertà: la fuel poverty (povertà energetica), cioè la difficoltà delle famiglie nei paesi economicamente avanzati ad accedere a servizi essenziali di elettricità e gas per illuminare, cucinare, riscaldare l’abitazione. In Italia sono in aumento le famiglie che non riescono a pagare le bollette o che non riescono a riscaldare in maniera adeguata la propria abitazione. Le cause sono riassumibili principalmente in: aumento del costo dei servizi energetici, disagio abitativo e scarsa qualità delle case e dell’isolamento termico, basso livello di reddito. La riforma tariffaria, che premia chi più consuma, e la legge sulla concorrenza che elimina il regime di maggior tutela, che va a rafforzare i grandi operatori di sempre, aggravano la situazione.
Oppure pensiamo a chi oggi paga di più le disfunzioni del sistema pubblico di trasporto (pendolari) o quanti siano le possibilità di accedere al car sharing o a colonnine di ricarica dell’auto elettrica per chi vive in periferia. O ancora, su tutt’altro fronte, quello che avviene nell’alimentazione. Secondo i dati dell’Osservatorio Sana 2016[7], i consumatori degli alimenti biologici, generalmente più sani e rispettosi dell’ambiente ma più cari, sono soprattutto donne, molto giovani (la percentuale più alta è tra la categoria che va dai 18 ai 29 anni, seguita a breve distanza dalla fascia 30-44), con figli, titolo di studio alto e reddito medio alto.
Insomma tutti questi fenomeni ci consentono di capire sempre più in profondità come le diseguaglianze vedano assieme cause sociali ed ambientali. E’ quindi importante che in Italia si proceda in questa riflessione e nella raccolta di dati e definizione di indicatori che mostrino le falle del nostro sistema economico sociale. Dati e analisi essenziali per far crescere la consapevolezza dei cittadini e la pressione sociale sulle decisioni politiche, mostrando l’urgenza del cambiamento.
[1] Le riflessioni esposte da questo punto in poi si giovano dei contributi di Maria Maranò e Vittorio Cogliati Dezza di Legambiente. Contributi che faranno parte di un’analisi sulle disuguaglianze in Italia condotta dalla rete GCAP Italia e che verrà pubblicata prossimamente a livello europeo e globale.
[2] Si vedano a tal proposito i lavori della UK Environmental Agency: https://www.gov.uk/government/publications/addressing-environmental-inequalities
[3] Si veda ad esempio il sito ISPRA sui siti contaminati: http://www.isprambiente.gov.it/it/temi/suolo-e-territorio/siti-contaminati, e l’atlante dei conflitti ambientali in http://atlanteitaliano.cdca.it/
[4] Si veda inoltre la recente condanna della Corte dei diritti umani: https://bari.repubblica.it/cronaca/2019/01/24/news/ex_ilva_di_taranto_la_corte_dei_diritti_umani_di_strasburgo_condanna_l_italia_non_ha_protetto_cittadini_dall_inquinamento_-217341928/
[5] Si veda: http://www.epiprev.it/sentieri/home
[6] Si veda http://www.laterradeifuochi.it/
[7] Si veda http://www.sana.it/iniziative/osservatorio-sana/osservatorio-sana-2017/6476.html