LEGGE SULLA COOPERAZIONE, ANCORA TROPPO TECNICA E ISTITUZIONALIZZATA
L’articolato del disegno di legge presentato dal Governo rappresenta finalmente un passo importante verso una riforma attesa da oltre 15 anni dal mondo della cooperazione. E’ giusto partecipare al dibattito che si apre nel parlamento portandolo nella società. A questo proposito si offrono alcune considerazioni.
E’ una proposta di legge che rischia di arrivare in parte già vecchia rispetto ad un mondo cambiato, a una società italiana che continua a fare relazioni e cooperazione a prescindere dallo Stato, e a prossimi appuntamenti internazionali come i nuovi obiettivi del millennio post-2015.
La filosofia e l’impostazione comprende le posizioni dei diversi attori, ma non produce una sintesi politica all’altezza delle sfide della cooperazione dei prossimi anni. Emergono come prioritari alcuni riferimenti tecnico-istituzionali, la presenza di un viceministro dedicato, la creazione di un’agenzia e del coordinamento interministeriale, che però non hanno alle spalle una nuova visione politica e culturale. Ad esempio, più volte vengono richiamati i principi dell’efficacia aiuto (tra questi l’unico che effettivamente si presenta come un principio è quello dell’appropriazione da parte dei paesi partner, gli altri sono dei semplici criteri di buon senso per fare funzionare meglio la cooperazione), ma manca il suo significato politico in termini di una cooperazione che affermi la governance democratica, la partecipazione e l’appropriazione a partire dai gruppi sociali più vulnerabili, la loro acquisizione di potere per una società più equa. Tutto ciò in una partnership globale che tenga conto di attori determinanti sulle traiettorie di sviluppo o impoverimento, nel male e nel bene, come il mercato, la finanza e il settore privato, così come emerge dalle esperienze di chi fa cooperazione sul terreno e come tradotto nel dibattito sul post 2015. Manca, quindi, una visione complessiva dove la cooperazione può e deve affermare dei principi essenziali quando si intreccia con altre politiche e altri attori per cercare di raggiungere una maggiore coerenza.
In sintesi è assente la centralità del soggetto che dovrebbe essere il protagonista della sua emancipazione, ovvero i movimenti locali dei gruppi più vulnerabili ed esclusi, mancano i poveri, e le loro relazioni con le associazioni della società civile italiana ed europea che lottano per un mondo più equo e giusto; non è riconosciuto lo spirito di fondo che anima la cooperazione diffusa nella società italiana da quando è nata: ovvero la volontà politica di cambiare il mondo, soprattutto attraverso il volontariato dei giovani così come delle diverse professioni e della ricerca che si spendono per un mondo senza frontiere. Questo è lo slancio vitale da riconoscere, il grande capitale umano per un’Italia aperta e solidale.
Non c’è alcun articolo indirizzato al volontariato, spirito e anima delle relazioni internazionali fondate su principi umanitari di solidarietà. Ciò che rimane è una legge focalizzata in gran parte sull’aspetto tecnico dell’introduzione dell’agenzia (a cui è dedicato tutto un capitolo), su una interpretazione istituzionale del coordinamento attraverso strumenti tradizionali come il Comitato Interministeriale per la Cooperazione allo Sviluppo (c’era già nella legge 49/87, poi sostituito col CIPE), con qualche accenno alla questione della coerenza. Forse in Italia già questo è abbastanza. Sicuramente è insufficiente rispetto al protagonismo dei giovani, della società viva che si relaziona e lavora a livello internazionale e sui territori.
Inoltre, la terminologia usata nel testo indica confusione, si scrive di cooperazione internazionale, cooperazione allo sviluppo, aiuto pubblico allo sviluppo, partenariati territoriali, partenariati internazionali, paesi in via di sviluppo e paesi partner. Concetti questi che in parte si sovrappongono e che però hanno anche implicazioni diverse a livello politico e operativo. In termini concreti, i paesi con cui fare cooperazione allo sviluppo sono definiti dal DAC/OCSE. L’Unione europea recentemente, con il principio della differenziazione, ha deciso di restringere la cooperazione bilaterale con alcuni paesi più poveri, escludendone altri a medio reddito. Diversi di questi paesi esclusi sono di interesse dei partenariati territoriali, e cioè delle regioni e degli enti locali assieme alle associazioni della società civile. Sembra sia quindi necessario asciugare il testo sui concetti fondanti, perché altrimenti si può dare luogo a equivoci e conflitti in fase di programmazione e gestione. La legge si concentrerà sull’aiuto allo sviluppo così come definito dalla comunità internazionale? O si apre a una visione più ampia di cooperazione internazionale che si indirizza anche verso paesi di medio reddito, con relazioni di reciprocità tra comunità locali e anche tra imprese. E che rapporti si prevede di creare con i nuovi poteri emergenti e con la cooperazione sud-sud? Questo disegno politico non si intravede nella proposta di legge.
Mancano completamente riferimenti all’esigenza di creare un sistema Italia. Tutto si riduce al riconoscimento dei diversi attori, con qualche “new entry” come le associazioni dei migranti e il cooperativismo sociale. La società civile e le imprese hanno i loro articoli, ma non c’è una indicazione sulla possibilità di far lavorare assieme i diversi attori. Ognuno sta per suo conto. L’agenzia non sembra avere alcun ruolo nella promozione del sistema. Il tavolo interistituzionale creato in questi ultimi due anni, ancorché di dubbia efficienza, non viene riproposto. Non ci sono innovazioni di metodi e strumenti.
Non ci sono innovazioni neanche riguardo il ruolo delle imprese. Tutto si riduce al tradizionale e mal funzionante articolo 7 sulle imprese miste e alla partecipazione a gare per la realizzazione di opere o il trasferimento di tecnologie finanziate con crediti di aiuto. Non si vede quindi alcun “pericolo” di una intrusione nuova del settore privato for profit nella cooperazione. Si potrebbe migliorare la legge ribadendo che, nell’articolo 26 a loro dedicato, le operazioni finanziate devono rispettare i diritti umani, dei lavoratori e dell’ambiente. D’altra parte non si coglie la possibilità di introdurre aperture verso la collaborazione tra profit e no profit, così come la possibilità anche per il no profit di fare impresa con i partner locali. E soprattutto non si stabilisce che il settore profit e cooperativistico prioritario da sostenere è quello delle micro e piccole imprese del Sud, non le imprese italiane.
La programmazione rimane confinata alle istituzioni ministeriali e le decisioni alla trimurti: viceministro, direttore della dgcs e direttore dell’agenzia; e al CICS. E’ prevista la consultazione della società civile nella conferenza nazionale sulla cooperazione, ma non viene ripresa nell’articolo sulla programmazione. E comunque tutti sappiamo che non è con un evento che si fa consultazione. La questione vera è introdurre un processo di confronto, che in parte si è tentato di fare con il tavolo interistituzionale, in maniera comunque insufficiente perché ha bisogno di traguardi concreti e di capacità di lavoro.
Infine, la proposta di legge prevede il riconoscimento dei migranti quali attori di cooperazione, ma nell’articolo 2 quando si scrive che la cooperazione contribuisce alle politiche migratorie, non si vincola questo contributo al rispetto dei diritti umani e dei migranti, a iniziative di co-sviluppo, e alla necessità che le risorse non siano utilizzate per fini di controllo e di sicurezza dei confini. Si evidenzia anche una discriminazione tra i soggetti della società civile: le associazioni dei migranti sono le uniche che devono dimostrare rapporti di cooperazione, mentre gli altri attori basta che citino la cooperazione nello statuto. Ci sembra che questo requisito di comprovate competenze/esperienze pregresse, debba valere per tutti i soggetti che fanno cooperazione e desiderano accedere a fondi pubblici per farlo meglio.
Altri aspetti della legge sono carenti, come l’assenza di una minima elaborazione sul rapporto tra intervento umanitario e cooperazione allo sviluppo. Insomma c’è del lavoro da fare per migliorarla, a partire da un maggiore coinvolgimento della società civile.