Locale vs globale: il conflitto tra masai e governo tanzaniano
Successivamente alla news di Valentina Geraci, oggi presentiamo di seguito l’articolo di Roberta Carbone che ha redatto un’analisi in merito alle proteste delle comunità masai stanziate in Tanzania a seguito del loro sfratto da parte del governo, il quale ha motivato tale provvedimento adducendo alle necessità legate alle logiche del turismo internazionale.
Attraverso il suo contributo, l’autrice intende soffermarsi su due questioni cruciali: da una parte, il nuovo protagonismo di attori non statali sul piano internazionale e il loro coinvolgimento in conflitti sempre più legati agli effetti della globalizzazione e alle diseguaglianze nella distribuzione delle risorse e, dall’altra, la ricerca di riconoscimento, tutela e maggiori spazi di espressione da parte di categorie sociali particolarmente vulnerabili ed esposte a dette dinamiche, con le loro rivendicazioni di carattere identitario e di partecipazione ai processi decisionali.
Da decenni, ormai, le cause, la natura e le dinamiche dei conflitti sono profondamente e strutturalmente mutate, superando le logiche della “guerra tradizionale” che vede coinvolti uno o più Stati in contrasto tra loro in un sistema internazionale fondato sullo Stato-nazione (l’attuale conflitto in Ucraina rappresenti, almeno sotto determinati aspetti, un’eccezione nell’ambito di tale tendenza). Si assiste oggi a un nuovo protagonismo su piano globale di attori economici non statali, in primis le imprese multinazionali, e a una sempre maggiore presa di posizione da parte di comunità locali, minoranze etniche e gruppi indigeni, con le loro istanze di riconoscimento giuridico-istituzionale della propria identità e dei propri diritti sulla terra da loro abitata e tutelata.
Locale vs globale: il conflitto tra masai e governo tanzaniano.
Questione di terra e di identità.
di Roberta Carbone
Introduzione
Quando si parla di globalizzazione, stabilire una data di inizio di tale fenomeno può risultare estremamente problematico, se non addirittura impossibile. Già molto tempo prima degli avvenimenti che hanno caratterizzato il Novecento, col loro carico di orrori ma anche di novità, esistevano scambi commerciali e incontri/scontri tra culture e popoli diversi, che hanno comportato l’apertura dei confini nazionali a ciò che “proveniva dall’esterno”, si trattasse di merci, persone, stili architettonici, idee o modi di pensare. Tuttavia, è indubbio che tra il ventesimo e il ventunesimo secolo si è assistito a un’intensificazione massiccia degli scambi e degli investimenti tra diverse aree del globo, un fenomeno che negli ultimi decenni ha subito un’ulteriore accelerazione tanto da comportare, da una parte, novità “rivoluzionarie” per quanto riguarda la nostra quotidianità e il nostro stile di vita e, dall’altra, cambiamenti strutturali al sistema internazionale, sempre più multipolare e interconnesso.
Volano di questo sistema economico globalizzato in cui vige l’internazionalizzazione delle attività produttive è l’impresa multinazionale, il cui potere economico è talmente significativo da poter influenzare le scelte politiche dei governi nazionali, dei Paesi in via di sviluppo, interessati ad attrarre investimenti e pronti a tale scopo ad abbassare gli standard di tutela dei diritti umani. Ad essere maggiormente colpite da tali processi sono quelle categorie sociali più vulnerabili che, se fino a qualche tempo fa venivano relegate ai margini nella società, oggi rivendicano sempre più a gran voce la propria identità e i propri spazi di espressione nell’ambito dei processi decisionali, insieme a tutta una serie di diritti che coinvolgono le terre da queste abitate e coltivate e di cui si riconoscono custodi.
Si è assistito e si continua ad assistere dunque all’emergere di tutta una serie di attori che, ognuno a modo proprio, si stanno facendo strada reclamando “il proprio posto” nel panorama internazionale, spesso con aspirazioni, esigenze e interessi confliggenti che possono sfociare in conflitti profondamente diversi da quelli che hanno caratterizzato i secoli scorsi, con implicazioni e dinamiche inedite.
Col mutare degli attori, dei rapporti di forza e dei giochi di potere, infatti, muta anche la struttura del conflitto stesso, le cui cause o, per meglio dire, i cui “fattori esplicativi”, come spiegato da Massimo Pallottino durante la prima giornata del Campo Giovani FOCSIV 2022 “Conflitti e Migrazioni”, possono essere molteplici e di varia natura, spesso legati al tema delle disuguaglianze che a loro volta possono essere verticali, orizzontali o geografiche.
In questa sede, verrà analizzato il conflitto sorto tra la comunità masai del distretto di Loliondo, in Tanzania, e il governo locale, un conflitto legato a questioni identitarie, ambientali, economiche e globali che vede contrapporsi, da un lato, le esigenze (locali) di riconoscimento dei propri diritti in quanto masai e custodi della terra e, dall’altro, le necessità (globali) del governo tanzaniano di adeguarsi alle logiche di un sistema di mercato internazionale.
Identità, risorse naturali e logiche di mercato: il caso dei masai del distretto di Loliondo
Com’è ben noto, la decolonizzazione dei Paesi in via di sviluppo è stata complessa e la definizione dei confini degli Stati sorti al termine di tale processo è stata, per utilizzare un eufemismo, piuttosto controversa, per non dire arbitraria, con popolazioni e comunità divise, difficoltà per i popoli nomadi e sistemi di assegnazione delle terre che non rispecchiavano le abitudini e le consuetudini pre-coloniali. Sintetizzando, le terre che in precedenza appartenevano alle potenze coloniali sono state “consegnate” ai governi nazionali i quali, a loro volta, ne hanno destinato una parte alle minoranze etniche e ai gruppi locali che da tempi immemori le avevano abitate e coltivate, senza però riconoscere loro alcun diritto di proprietà.
Tuttavia, questa assenza di riconoscimento e, di conseguenza, di tutela legale a favore di tali attori, rende questi ultimi particolarmente vulnerabili e esposti alle dinamiche derivanti da un sistema economico globalizzato fondato sull’internazionalizzazione delle attività produttive, che ha tra i suoi presupposti lo sfruttamento delle risorse di terra e di acqua dei Paesi in cui queste vi sono in (relativa) abbondanza. In questo contesto si collocano gli avvenimenti che hanno interessato il distretto di Loliondo, in Tanzania, dove la comunità masai ivi stanziata si è scontrata con la polizia e l’esercito a seguito della decisione da parte del governo di sfrattare i membri della comunità al fine di riconvertire l’area in una riserva di caccia e safari affidata a operatori internazionali. Più nello specifico, il progetto prevede la creazione di un’area protetta di 1500 km2 e la trasformazione delle cosiddette Game controlled areas, aree in cui la protezione della fauna locale non implica il divieto di insediamento, in Game reserves, aree in cui non è possibile alcun tipo di insediamento e dove sono permesse forme di caccia volte, in teoria, a salvaguardare l’ecosistema.
Per giustificare tale intervento, infatti, il governo tanzaniano ha parlato di “iniziativa di protezione ambientale”, dietro la quale si celerebbe in realtà un’operazione di business nel settore del turismo internazionale, col passaggio della gestione dell’area a favore della Otterlo business company, con sede negli Emirati Arabi, famosa per organizzare soggiorni e battute di caccia per clienti e visitatori facoltosi. Gli interessi della compagnia nell’area sono noti e non così recenti, e il suo coinvolgimento nelle operazioni di sfratto e dislocazione dei masai stanziati nella regione risale almeno al 2009, con un inasprimento dei conflitti che ha il suo culmine nel 2017, quando alcune abitazioni sono state bruciate e un ventenne è stato ucciso dalle autorità.
La situazione era dunque diventata talmente insostenibile e pericolosa che le comunità masai locali hanno deciso di rivolgersi alla Corte di giustizia dell’Africa orientale, la quale si è espressa a favore dei masai ponendo fine, almeno temporaneamente, al processo di espulsione dei gruppi stanziati all’interno dell’area. Tuttavia, la sentenza definitiva da parte della Corte tarda ad arrivare e l’assenza di tutela giuridica a favore dei gruppi locali ha fatto sì che il governo operasse in maniera sostanzialmente arbitraria, procedendo nuovamente con sfratti massivi che hanno riportato alla luce tensioni e antagonismi mai completamente superati.
La resistenza masai: quando orgoglio identitario e tutela ambientale si incontrano
Nella giornata dell’8 giugno di quest’anno, numerosi funzionari della polizia e dell’esercito, affiancati da agenti in tenuta antisommossa, si sono recati nel distretto di Loliondo per delimitare l’area destinata alla nuova riserva di caccia in gestione alla compagnia degli Emirati, operazione a cui è seguita l’immediata risposta da parte delle comunità masai stanziate sul territorio. Tale reazione era sicuramente prevista e le autorità non hanno tardato a respingere la protesta facendo ricorso alle armi e alla violenza, col lancio di gas lacrimogeni e spari ad altezza uomo che hanno colpito i manifestanti, tra cui diverse donne, accrescendo l’indignazione, la frustrazione e la rabbia dei gruppi locali. La protesta è dunque degenerata in uno scontro aperto, coi masai che hanno risposto al fuoco scagliando pietre e frecce contro le autorità, provocando la morte di un agente di polizia.
Di fronte a una tale esplosione di violenza risulta necessario, se non impellente, domandarsi se, e in che modo, possa instaurarsi un dialogo pacifico e costruttivo tra tutte le parti coinvolte che abbia come punto di partenza il rispetto dei diritti umani e la possibilità a favore delle categorie sociali più vulnerabili e meno tutelate di ottenere riconoscimento e spazi di espressione nell’ambito delle dinamiche che le coinvolgono.
La questione della proprietà della terra in Africa subsahariana, infatti, è molto vasta ed estremamente complessa e non riguarda meramente il problema, già di per sé titanico, dell’allocazione e della distribuzione delle risorse, ma investe anche temi quali l’identità delle comunità e delle minoranze etniche e la loro auto-percezione e auto-rappresentazione come custodi dell’ecosistema di cui si sentono parte integrante. “Hanno un legame particolare con la terra, non possono essere trasferiti altrove perché quella è la loro terra ancestrale, fatta di luoghi sacri, di sepolture dei loro antenati, di pascoli per la loro sussistenza”, queste le parole con cui Fiore Longo, ricercatrice di Survival International, descrive il rapporto tra il popolo masai e la terra in cui questo vive, parole da cui emerge tutta una serie di questioni che trascendono la dimensione giuridica della proprietà della terra o quella economica legata allo sfruttamento delle risorse presenti nell’area.
“Nel nome della conservazione della terra si vogliono mandare via le persone che hanno protetto quelle stesse terre per generazioni, lasciando entrare persone che pagano soldi per cacciare”, continua Longo, commentando la blanda giustificazione fornita dal governo per quanto riguarda le operazioni di sfratto e sottolineando la rilevanza del tema identitario nei rapporti e nelle dinamiche tra masai, terra e risorse naturali.
Tuttavia, se tale auto-rappresentazione e identificazione delle comunità masai in quanto custodi delle proprie terre, garanti dell’ecosistema e al tempo stesso parte integrante dell’ambiente naturale con cui interagiscono, non viene socialmente e giuridicamente riconosciuta, le logiche del sistema di mercato globalizzato continueranno a prevalere sui diritti umani e ambientali. Inoltre, se le questioni identitarie non verranno adeguatamente incluse nelle analisi dei sempre più numerosi conflitti legati all’accaparramento e alla distribuzione delle risorse, questi ultimi non troveranno mai soluzioni definitive che possano soddisfare tutte le parti coinvolte e proseguiranno a polarizzare gli attori, emergenti o emersi, che caratterizzano un sistema internazionale sempre più complesso e connotato da diseguaglianze economiche e ingiustizie sociali.
Roberta Carbone Laureata in Relazioni e Istituzioni dell’Asia e dell’Africa presso l’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, specializzata in Africa subsahariana, è oggi una ricercatrice indipendente interessata a temi quali diritti umani e sviluppo sostenibile. Operatrice volontaria presso AUCI- Associazione Universitaria Cooperazione Internazionale, si occupa della tutela di gruppi sociali particolarmente vulnerabili e di comunicazione. È inoltre analista nell’area Diritti Umani per il Centro Studi AMIStaDeS.