Marocco: 18 giorni a “Le Nid”
Il mese di agosto ci ha riservato parecchie sorprese, che nei nostri diciotto giorni a Meknes si sono intensificate esponenzialmente. Dopo tutto, la lezione più chiara che abbiamo avuto, è proprio che noi tre siamo terreno fertile per gli imprevisti.
Sapevamo solo che avremmo prestato servizio in un orfanotrofio chiamato “Le Nid” e che in città c’era un ristorante italiano che faceva i panzerotti, quando fummo accompagnati a vedere quella che sarebbe stata la nostra casa. Vi si accedeva da una porticina che stava nei primi 10 metri dentro la medina, in uno dei vicoli che poi andava ad intrecciarsi con la parte consistente del gomitolo di strade, senza finestre e senza lavatrice, ma con un condizionatore che sembrava non dare troppi problemi e un affittuario molto gentile che ci faceva il bucato all’occorrenza. Era abbastanza piccola, con un bagno non proprio soddisfacente o all’avanguardia delle norme igieniche e una cucina che dava direttamente sull’esterno. Ammettiamo tutti che ci ha regalato momenti di tensione, chi più e chi meno, ma siamo ancora vivi, sani e con il morale ancora alto. La scomodità in casa ci ha spinto a stare fuori anche quando non lavoravamo, e grazie a questo abbiamo fatto tanti incontri, visto diversi posti e mangiato “un bottacchione” come direbbe Giulia. Ad ogni modo, questo non è nulla rispetto a ciò che avremmo scoperto a Le Nid.
Siamo tutti d’accordo nel dire che l’orfanotrofio è come un’oasi allegra dentro a un ospedale non esattamente in condizioni ottimali, ma non è stata tutta spensieratezza sfrenata ciò che ci attendeva. I ragazzi stanno bene e sono trattati bene nel complesso, il che è un fatto che conforta, ma all’inizio entrare in empatia con loro è stato molto difficile, d’altronde a separarci c’era un problema linguistico se non anche educativo e se non anche cognitivo.
Non è scontato dunque farsi capire da dei ragazzini con disabilità che parlano solo in arabo, indicargli le attività, spiegargli cosa va fatto, cosa non si fa e quali sono i limiti delle cose, che siano nei giochi, con il cibo o nei rapporti con le persone. Però la loro energia è travolgente, quindi una volta abituati alla “bava” di qualcuno e al loro modo di comunicare, non si può non farsi prendere dalla loro voglia di fare, e per quanto ci sia costato un po’ di fatica, ci hanno regalato dei momenti memorabili.
All’inizio è stato uno sforzo, ma quando ci siamo accorti che parlavamo di loro fra di noi anche fuori dall’orfanotrofio, è diventato evidente che ci stavamo affezionando, ognuno a suo modo. E’ stata una grande esperienza per tutti e tre, soprattutto per conoscerci e imparare a comprendere un ambiente diverso anche al di fuori dell’orfanotrofio. Abbiamo avuto la fortuna di essere stati invitati a cena a casa di una famiglia marocchina a mangiare la Rfissa, durante la quale il figlio maggiore ci ha anche recitato una parte del corano, è stato tutto indimenticabile.
Ognuno di noi ha dovuto fare i conti con difficoltà diverse, ma insieme ce la siamo cavata anche con il sorriso, è stato un bel boccone di servizio civile questo, e ci stiamo prendendo gusto.
Giona Amedeo De Iusi, Casco Bianco con OVCI in Marocco