Momenti di gratitudine
Eccomi qui, provando di nuovo a testimoniare qualcosa riguardo la mia permanenza qui. In realtà è molto strano. Un po’ perché non mi sento all’altezza, un po’ perché effettivamente dovrei spremermi gli occhi e il cuore e darli da bere a chi voglia assaggiarli, perché la stessa cosa in fondo è diversa in base a chi la vede, la vive, e anche in base a cosa si ha dentro nel momento in cui lo si fa.
Ora sono qui da otto mesi. È tanto, ma è anche poco, e inevitabilmente inizio a pensare a quando dovrò andare via da quella che ormai sento la mia casa. Il tempo scorre veloce ma allo stesso tempo dilatato, come se fosse uno dei fiumi meravigliosi che si trovano qui, che a vedersi sembra scorrere uniforme e lento, quando invece sotto ribolle di correnti e pullula di forme di vita in lotta tra loro. E nello scorrere si stagliano, come dei massi grandi, che neanche la piena dello stesso ipotetico rio può coprire, dei momenti. Alcuni sono durati una frazione di secondo, altri sono durati giorni, altri durano ancora da quando sono qui.
La meraviglia nel vedere un albero altissimo, scoprire che è uva e subito lo stupore nel constatare che a raccoglierla ci sale con disinvoltura e rapidità un ragazzo con la metà dei miei anni.
La bellezza nel sentire i profumi di ogni luogo, così diversi da quelli di casa, eppure ormai familiari.
Sentirmi sereno ed accettato nelle comunità dove vado a lavoro, quando i padroni delle case generosamente mi offrono la chicha e la beviamo insieme, con loro che sorridono perché non riesco a berla velocemente come fanno loro.
La gioiosa fatica di partecipare alle giornate di minga; questo termine rappresenta un concetto meraviglioso delle comunità kichwa (popolazioni indigene dell’amazzonia ndr). Se un lavoro interessa il bene comune, minga appunto, tutti devono partecipare. Anche qui, come in ogni centro abitato del mondo, ci sono magari antipatie, litigi tra vicini, questioni per i terreni confinanti, ma durante la minga si lavora tutti insieme. Qualcuno fa uno strappo alla regola e beve del trago (una forte bevanda locale), intanto si fatica e si conversa tutti insieme. Nelle mingas a cui ho partecipato, non capivo quando gli altri parlavano in lingua kichwa; non bevevo trago, perché è decisamente troppo forte da bere durante il lavoro sotto il sole amazzonico; cadevo un numero imprecisato di volte, perché il mio sacco di pietre oscillava troppo. Tuttavia, ogni giorno di lavoro, ad ogni piccola conversazione, per ogni sacco che riuscivo a portare senza scivolare, ad ogni almuerzo (pranzo) tutti insieme, mi sentivo sempre meno stanco, più felice e parte della comunità, nonostante non vivessi lì e sapessi che la mia presenza fosse solo transitoria e il mio contributo oggettivamente piccolo.
La felicità nel proporre di scambiare il mio cappello stile esploratore con uno della polizia ecuadoriana a una signora della comunità di Villano, che, una volta accettato il baratto, mi sorride e tendendomi la mano mi dice che da quel momento in poi saremo ufficialmente amici.
La sensazione di pace e serenità provata quando sono stato ospitato da Eliceo nella sua casa a Campococha. Conoscere tutta la sua famiglia, giocando coi suoi figli; andare a pesca tutti insieme, cucinare e potergli dire che gli voglio bene.
Andare in canoa sul fiume Napo per una giornata intera insieme a un’amica, con lo scopo di vedere i delfini rosa, e nel tragitto rimanere estasiati nel vedere quanto il fiume sia enorme, intimoriti dalla forza della pioggia e tristi nel vedere porzioni di selva mangiate dagli impianti petroliferi.
Giocare per mezz’ora con un pezzo di tubo insieme a Natalie, una bambina della comunità di Condor, e trovarmi ad essere lì lì per commuovermi, vedendo quanto si diverta di cuore; voler rimanere lì per ore e nel frattempo riflettere, in maniera magari banale, sul valore delle cose semplici.
Scoprire quanto mi mancava vedere il sole che si tuffa nel mare, rimanendo incantato davanti a un tramonto sulla costa colombiana.
La determinazione nel provare tutti insieme a fare una chicha di yucca in Casa Bonuchelli, (centro di educazione ed accoglienza per minori a Tena) seguita da amare risate quando Jeyson ci dice che, no, non è uscita per niente bene e va buttata; mentre la buttiamo, la voglia di perseverare e, cavolo, riuscirci, in onore di tutte quelle che abbiamo bevuto con gusto, quando ce le offrivano con gentilezza.
La spensieratezza nello sfilare per le strade di Guaranda a Carnevale e la felicità nel pensare che prima non lo avrei mai fatto per timidezza, o timore, o non so per cos’altro, ma qui non mi sento giudicato, mi sento abbastanza per il mondo e quindi ho vinto questa inibizione.
Lo stupore e la commozione nell’arrivare al Mirador di Campococha, guidati da Jeyson, e vedere il panorama amazzonico più bello finora, certamente uno dei panorami più belli della mia vita, che resterà impresso come un marchio a fuoco dentro di me.
Ci sarebbero molti altri momenti come questi, spensierati, profondi, tristi, felici. Però mi fermo qui, altrimenti diventerebbe solo un interminabile elenco, noioso per chi legge.
Metto solo qui, alla fine, il momento più importante: quello che è iniziato quando ho preso l’aereo e che ancora non è finito. La profonda gratitudine verso questo posto, verso la sua gente e, ovviamente, verso le persone stupende con cui vivo qui in casa. Insomma, verso ogni giorno di questo anno qui. Perché anche se mi sento a casa, anche se si è creata la familiare routine della quotidianità, ogni giorno mi dà tantissimo, mi toglie alcune cose, mi fa riflettere a fondo su altre, mi dà l’opportunità di cambiare in meglio, ma rimanendo me stesso; tutto grazie a ciò che mi viene costantemente e inconsapevolmente dato da ogni luogo e persona. Come un piccolo seme che diventa una pianta grazie alla pioggia che lo bagna dall’alto.
Simone lo Bosco, Casco Bianco con Engim in Ecuador
foto presa dal sito engimecuador.org