Papa Francesco e l’Iraq, quello che resta di un viaggio oltre la speranza
Profonda e importante è l’impronta che il Santo Padre ha lasciato nella terra di Abramo e dei profeti: una terra martoriata dal male ma che sta tornando alla vita di Ivana Borsotto*
L’impronta che Papa Francesco lascia nella terra antica tra i due fiumi, culla della agricoltura, delle città e della scrittura, terra di Abramo e di profeti, terra martoriata dal male degli uomini e da fedi stravolte, ha un nome. Il suo nome è speranza. Speranza nel corteo delle donne che cantano «Papa Francesco, Papa Francesco» in una notte serena, rischiarata da centinaia lumini, nei cori dello stadio di Erbil e nella folla che prega con il Papa, e balla e canta per la gioia di una resurrezione possibile, cristiani e islamici e di altre fedi e nel coraggio delle donne Yazide che hanno protetto i figli nati dalla violenza. Speranza nel Sidra, il Libro sacro dei siro-cristiani, manoscritto del XIV secolo, il Libro «profugo», salvato rocambolescamente dalla furia dell’Isis e restaurato in Italia, che il Papa riporta a casa e lo restituisce alla sua comunità, alla sua casa, a Tahira, la cattedrale dell’Immacolata Concezione di Qaraqosh.
Speranza negli sguardi intensi e nei silenzi e nelle parole segrete di Francesco e di Al-Sistani, che si alza per accoglierlo nella sua umile casa. E il loro dialogo è il nostro dialogo. Se possono dialogare loro forse possiamo farlo anche noi. E a Ur dei caldei, dove Dio chiamò Abramo per nome e gli disse di andare. Ed è preghiera comune delle religioni, tutti figli di Dio. Speranza nel trasferimento in auto del Papa che vede da vicino, e non dall’alto, i disastri della guerra e nel cartonato del Papa in una via di Mosul, disponibile a ogni selfie, e tutti gli sorridono. Speranza nelle famiglie che tornano alle loro case e lavorano per ricostruirle e nella ospitalità che ti invita al loro tavolo e ti offrono tutto il loro cibo nel ricordo di quando si viveva in pace, tanti, troppi anni fa. Speranza nei tre nomi di una città, Qaraqosh, Baghdida e Al-Hamdanyia, simbolo di identità e radici secolari, e di convivenza. E oggi inquiete.
Speranza, nonostante i molti che non torneranno più, molti la cui speranza è in Europa, che fatica ad accoglierli e fa orecchio da mercante. Nonostante le famiglie ancora divise. Nonostante le ferite non ancora rimarginate e ancora fanno male e alimentano il sospetto anche verso chi ti viveva accanto. Nonostante troppe armi ancora nelle mani degli uomini, armi che chissà se ti proteggono e che ti appesantiscono il cuore e ti spaventano. Nonostante i droni e le aggressive pretese della Turchia. Nonostante i campi profughi, inaccessibili. Nonostante la tragedia che ancora vive il popolo siriano, in patria e nei campi angosciosi del vicino Libano.
Speranza nei bambini che giocano, nelle greggi di pecore al pascolo, nei caffè e nei negozi che riaprono, nelle bancarelle di mille colori per strada, nelle piccole pietre che raccogli in una chiesa distrutta dalla cecità e dall’odio, in un insegnante che si inginocchia e prega per strada, in una fede semplice e profonda, nella fiducia della riapertura al turismo in città di meraviglie, patrimonio Unesco dell’umanità, nella determinazione di noi Focsiv a continuare il nostro lavoro, insieme a tanti altri uomini e donne e al popolo iracheno, senza distinzioni e discriminazioni di culture, di etnie e di religioni. Speranza nella risolutezza del Papa a questo viaggio impossibile, oltre ogni invito alla prudenza, a rappresentare l’umanità, e nel suo messaggio «Voi non siete soli». Speranza, il suo nome è un canto, un sussurro, una preghiera, una passione.
Presidente Focsiv