POLICY – Quali politiche agricole per il diritto al cibo?
Questa nota prende spunto dalla partecipazione all’incontro organizzato da Kuminda “Quali politiche per sostenere l’agricoltura contadina”, tenutosi a Parma il 12 ottobre. Durante questo seminario vi sono state diverse sollecitazioni che impongono una riflessione aperta e problematica sulla questione delle politiche agricole per il diritto al cibo al nord e al sud del mondo.
La tesi avanzata da diversi relatori è quella di sostenere un nuovo sistema agro ecologico, fondato sull’agricoltura biologica e sul rapporto diretto tra produttore e consumatore. La buona pratica della cooperativa agricola IRIS che oggi dà lavoro a circa 50 persone, mostra la possibilità di esistere. Si tratta di costruire relazioni fiduciarie, una alleanza tra cittadini (non solo produttori e consumatori) per la salvaguardia del territorio, della sua vitalità, della sua sostenibilità. Dove la filiera corta rappresenta una forma non solo di organizzazione economica ma anche di democrazia economica. Dove produttori locali si alleano con gruppi di acquisto solidale per condividere una gestione del territorio capace di far fronte ai bisogni senza depauperare le risorse ovvero i beni comuni: la terra, l’acqua, il sapere tradizionale rinnovato con tecniche sostenibili. Si creano così distretti di economia solidale.
D’altra parte l’assessore all’agricoltura della Regione Emilia Romagna ha portato a conoscenza una serie di dati che contrastano fortemente con la tesi precedente. Dal 2000 al 2010 le aziende agricole nella regione sono diminuite del 31% (del 42% in aree montane), la superficie agricola si è ridotta del 5% (20% in montagna), la dimensione media delle aziende è aumentata da 10 a 14 ettari, l’incremento della superficie si deve tutto alle aziende superiori ai 50 ettari. Solo l’8% delle aziende è guidato da giovani (persone sotto i 40 anni), mentre l’88% degli agricoltori, per lo più anziani, non ha successori. Si prevede di conseguenza che circa 250 mila ettari andranno sul mercato della terra, di cui si avvantaggeranno le grandi aziende agricole e dell’edilizia. I dati mostrano la progressiva scomparsa dell’agricoltura contadina a favore di quella agro-industriale.
Se si vuole stare sul mercato occorre ridurre i costi (che in Italia si devono in gran parte all’energia, al peso fiscale e burocratico), ridurre il potere delle grandi catene commerciali, organizzare un’offerta comune tra i produttori agricoli.
Di fronte a questo processo che appare inarrestabile, i distretti di economia solidale sono all’inizio, devono crescere, ma i suoi numeri sono poco significativi. Inoltre, alcuni interventi hanno messo in evidenza problemi di carattere strutturale: è difficile e forse troppo pretenzioso chiedere ai piccoli contadini di essere contemporaneamente produttori e commercianti, difensori del territorio che richiedono investimenti di non poco conto, produttori di beni diversificati, di qualità, a prezzi contenuti o comunque concorrenziali con alimenti che invece godono di economie di scala. E’ necessario sensibilizzare, organizzarsi, avere accesso alle risorse, contare su normative non vessatorie ma facilitanti. E per tutto ciò occorrono investimenti.
La nuova politica agricola comune nel secondo pilastro dedicato allo sviluppo rurale sembra dedicherà più risorse per l’agricoltura sostenibile e multi-funzionale specialmente nelle aree svantaggiate, tra cui quelle di montagna. E su questo la Regione Emilia Romagna ha già investito e ha intenzione di rafforzare l’azione. D’altra parte continueranno i sussidi alle produzioni (pagamenti diretti) fondati sul criterio della dimensione aziendale (il numero di ettari) senza tener conto di altri aspetti, quali il reddito, la sua distribuzione familiare e locale, l’adozione di metodi sostenibili, la salvaguardia dell’ambiente.
E nel sud? Importante il caso argentino dove un’oligarchia agricola di grandi latifondisti producono soia e mais con OGM per l’esportazione sul mercato mondiale. I piccoli produttori, che negli ultimi anni si stanno anche impegnando nell’agricoltura biologica, sono relegati al margine. Viceversa, in paesi poveri, come ad esempio il Burkina Faso, gran parte dell’agricoltura è di carattere familiare per la sussistenza e il mercato locale, minacciata dalle importazioni a basso costo provenienti dall’Europa e dai grandi produttori mondiali come appunto l’Argentina o l’Australia. Nei paesi poveri l’alimentazione delle popolazioni è assicurata per il 70% dall’agricoltura contadina, ma l’esodo rurale e l’urbanizzazione stanno prefigurando nuovi bisogni, quelli dei consumatori urbani, a cui sa rispondere in modo più veloce ed economico l’agro-industria con le sue filiere lunghe. Bisogni che attraggono l’attenzione dei grandi esportatori mondiali, tra cui l’Unione europea, soprattutto nel caso dei prodotti alimentari trasformati, che spiazzano le incipienti produzioni locali, rompendo le catene di valore corte.
Sulla base di questi processi e queste situazioni, appaiono alcune questioni di fondo:
L’agro-industria e l’agricoltura contadina possono essere complementari o sono alternative? E’ possibile una riconversione responsabile dell’agro-industria o è intrinsecamente votata alla sfruttamento della terra? L’agricoltura contadina può crescere e rivitalizzarsi, in forme organizzate e cooperative, o è votata alla marginalità e alla scomparsa? La cittadinanza attiva e responsabile è capace di orientare le scelte politiche a favore di sistemi agro-ecologici, sociali e di democrazia economica? Questi sistemi sono in grado di rispondere alla sfida dell’urbanizzazione ovvero dei grandi numeri? Come scardinare l’ambiguità della politica agricola comune europea?