POST ECONOMIA?
Di Mario Carmelo Cirillo, attivista FOCSIV
«There is no alternative»
«Non c’è alternativa»
Questa frase è uno slogan utilizzato da Margaret Thatcher, prima ministra del Regno Unito dal 1979 al 1990 e leader del Partito Conservatore dal 1975 al 1990, e si riferisce alla sua convinzione che il solo sistema che funziona è la libera economia di mercato. La sua azione politica, insieme a quella di Ronald Reagan, presidente repubblicano degli Stati Uniti d’America dal 1981 al 1989, fu mirata a ridurre all’osso l’intervento dello stato in economia, liberalizzando la circolazione dei capitali e consentendo il più possibile al mercato di esprimere liberamente le sue potenzialità “senza lacci e lacciuoli”, ispirandosi alle dottrine del neoliberalismo.
Di neoliberalismo, e delle sue declinazioni nella variegata realtà italiana, si occupa il saggio di Francesco Maggio “Post Economia” (Armando Editore, 2020), che si colloca sulla scia degli interventi critici nei confronti di questo sistema economico. Il neoliberalismo nella sua forma più pervasiva si è affermato nelle democrazie occidentali a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso grazie in particolare alle politiche poste in essere da Thatcher e Reagan, e da molti è ritenuto responsabile del progressivo aumento delle disuguaglianze e in particolare della gravissima crisi economica del 2008, senza contare le devastazioni ambientali su scala planetaria. Francesco Maggio esprime una critica molto dura nei confronti del neoliberalismo e dell’establishment che lo sostiene, e si spinge addirittura a immaginare la necessità non di una correzione dei meccanismi economici in essere che si ispirano al neoliberalismo, ma addirittura – provocatoriamente – di una post-economia, in quanto “stiamo vivendo la notte più buia del pensiero economico” (pag. 12).
Cosa intende l’autore per post-economia? Il termine mi ha colpito perché, in senso stretto, non ci può essere una post-economia, così come non ci può essere una post-energia; ci può essere una diversa economia, come pure una diversa energia. Francesco Maggio appare consapevole di ciò, infatti considera questa espressione “fluida, non riconducibile a un significato ben preciso e condiviso, ma certamente evocativa dei cambiamenti epocali che stiamo vivendo” (pag. 11).
Il libro si situa immediatamente prima della faglia che separa il “prima” dal “dopo” COVID 19; questo a mio parere dà un sapore particolare alle riflessioni in esso contenute, soprattutto a quelle che fanno riferimento alla situazione italiana: Milano, il Sud, la politica, il terzo settore, … tutti temi che sono poi esplosi nel corso della pandemia; non a caso l’autore nel Prologo definisce il libro profetico. In effetti a valle dell’esplosione pandemica le riflessioni critiche (articoli, saggi, interventi) sul sistema economico attuale si sono intensificate, ricordo fra tutti l’ottimo libro di Mariana Mazzucato “Non sprechiamo questa crisi”, Laterza, 2020.
C’è da osservare che Thatcher e Reagan non sbucano fuori dal nulla. Inoltre le politiche che si ispirano al neoliberalismo avviate da questi leader conservatori sono continuate anche con leader progressisti come Tony Blair in Gran Bretagna e Bill Clinton negli USA. E in Europa il sistema di governance dell’Unione Europea – unico esempio al mondo di unione monetaria senza unione politica – è ispirato al neoliberalismo. Peraltro politiche che si ispirano alla dottrina del neoliberalismo si trovano in altri paesi prima degli anni ‘80, pensiamo ai giovani economisti cileni detti Chicago Boys, epigoni del pensiero neoliberale formatisi alla scuola di Milton Friedman a Chicago, consiglieri fin dagli anni ‘70 di Pinochet in Cile; oppure a tutta una serie di politiche di modernizzazione dei cosiddetti “paesi in via di sviluppo” messe in atto dopo la fine della seconda guerra mondiale, che spesso portano a un continuo processo di indebitamento e di asservimento di questi paesi a multinazionali e a potenti paesi occidentali quali gli USA[1]. Tutto questo mostra che l’affermazione del neoliberalismo a livello planetario è il risultato di un’onda lunga.
In effetti fin dagli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale un nutrito gruppo di economisti e intellettuali tra cui Friedrich Von Hayek, Ludwig von Mises, Milton Friedman, intraprese una massiccia e capillare produzione di libri e saggi, non pochi di notevole livello, che auspicavano una rimodulazione del ruolo dello stato e un pieno dispiegamento della libera circolazione dei capitali e delle merci, e grazie a questo lavoro capillare nei decenni successivi le dottrine ispirate al neoliberalismo occupavano spazi crescenti nelle università e poi nei governi, in particolare con l’avvento di Thatcher e Reagan. Ma le origini del neoliberalismo risalgono a prima ancora.
L’onda lunga del neoliberalismo secondo Massimo De Carolis (si veda in particolare il suo saggio “Il rovescio della libertà”, Quodlibet, 2017) parte negli anni ‘30 del secolo scorso in Germania e in Austria per creare un’alternativa alla rottura del patto tra le classi dirigenti e le masse[2], a valle delle catastrofi della prima guerra mondiale e della crisi economica del 1929, con conseguente affermazione di regimi totalitari in Italia (Fascismo) e in Germania (Nazismo). L’idea era di modificare il meccanismo di governo “dall’alto” con un meccanismo “dal basso”, che non doveva reprimere ma al contrario doveva pilotare le crescenti esigenze di affrancamento e di libertà delle masse, in particolare indirizzandole verso attività funzionali alla crescita economica, il che avrebbe consentito il soddisfacimento dei bisogni espressi evitando derive totalitarie. Questo può avvenire, secondo il pensiero neoliberale, grazie al prodigio del mercato, che per questo deve funzionare quanto più fluidamente possibile. È la vecchia idea del liberismo classico, la mano invisibile del mercato, solo che il neoliberalismo non crede che ciò avvenga spontaneamente, ma che necessiti di meccanismi di governo che senza imposizioni esterne favoriscano dal di dentro il funzionamento fluido del mercato: il termine utilizzato (e abusato dai nostri politici e manager) è governance. Dunque il neoliberalismo non minimizza l’intervento dello stato o del governo come spesso si crede, ma anzi ha bisogno di un controllo continuo e capillare (si pensi a tutti i meccanismi di controllo dell’Unione Europea come l’anti trust, che come già accennato si ispirano al neoliberalismo).
Ma … c’è un “ma”.
Il punto è che quanto è successo nella realtà contraddice totalmente gli intendimenti originari del pensiero neoliberale. Di fatto il governo economico globale che si è realizzato partendo dal paradigma neoliberale è quanto di più antidemocratico si possa immaginare, esercitato da élite formalmente di tipo tecnico-economico, ma che in realtà prendono decisioni politiche, sempre più ristrette e sempre più distanti dai bisogni reali delle persone. Sono queste élite, gli insider, che conoscono e gestiscono, spesso orientandole, le complesse dinamiche del mercato e della finanza globale, e a questi devono affidarsi (o per amore o per forza) gli outsider, quelli fuori dalla camera dei bottoni: si pensi al piccolo risparmiatore, cosa può fare se non consegnarsi a un insider (o presunto tale) sperando che le cose per i suoi risparmi non vadano troppo male, come purtroppo è accaduto agli aretini con Banca Etruria?
I disastri sono sotto gli occhi di tutti: a livello planetario si pensi al progressivo impoverimento di amplissime fasce di popolazioni e alle devastazioni ecologiche di Brasile, Africa, Australia tanto per citarne alcune; a livello Europeo si pensi alla tristissima vicenda della Grecia e al progressivo rafforzamento delle forze sovraniste e reazionarie inclusa la nascita di democrazie illiberali in Ungheria e in Polonia; a livello italiano, le cui tante contraddizioni e criticità sono efficacemente descritte in “Post Economia” da Francesco Maggio, si è assistito al montare di atteggiamenti critici nei confronti dell’Europa e alla concomitante crescita di forze politiche sovraniste.
Perché tanta distanza tra le finalità originarie del pensiero neoliberale e i suoi esiti? Un motivo rilevante, se non il principale, è la tensione tra dinamica imprenditoriale e dinamica speculativa. Lo spirito d’impresa si pone il tema di quale tra le possibili azioni avrà esito migliore, funzionerà meglio nel medio-lungo termine. Lo spirito speculativo ha una dinamica completamente diversa, in quanto si pone la domanda: “che cosa penserà il mercato domani?”, e opera di conseguenza per il proprio utile di breve periodo, senza curarsi se quanto fa sia, per altri versi, buono o cattivo, utile o dannoso. Purtroppo, meglio funziona il mercato, e più la logica di tipo speculativo prevale su quella imprenditoriale. Di fatto tutte le azioni e gli strumenti messi a punto dalle politiche neoliberali hanno condotto a mercati sempre più pervasivi e fluidi, con la conseguenza che la dinamica dominante è quella speculativa. Su questo punto i neoliberali hanno sempre glissato, mentre era molto chiaro a Keynes, il quale in contrasto con la teoria economica neoliberale sosteneva la necessità dell’intervento pubblico statale nell’economia. Keynes pensava infatti che più il mercato è liquido, più la dinamica speculativa si afferma in quanto più razionale in termini di utili immediati, anche se è la meno ragionevole. I fatti gli hanno dato ragione.
A partire dagli anni ‘80 l’abbandono negli Stati occidentali delle politiche di stampo keynesiano, soppiantate da politiche sempre più imbevute di neoliberalismo, ha grandemente favorito la liquidità dei mercati e di conseguenza le azioni speculative, ma non solo; tra gli altri effetti, il graduale indebolimento/smontaggio del welfare state e il rafforzamento delle politiche di austerità portate avanti, tra l’altro, dall’Unione Europea.
Poi arriva il virus.
In uno scenario in cui l’Italia – con un governo giallorosso succeduto, senza soluzione di continuità nella leadership, a un governo gialloverde – arranca con fatica per quadrare i bilanci all’interno dei rigorosi vincoli imposti dall’Unione Europea, dilaga la pandemia. Che si rivela un autentico spartiacque tra un “prima” e un “dopo”.
Si pensi al Next Generation Fund dell’Unione Europea (chiamato impropriamente Recovery Fund in Italia), una virata netta e forse irreversibile rispetto alle politiche neoliberali che costituiscono la cifra caratteristica dell’Unione, un provvedimento impensabile in condizioni pre-pandemia. O alla mancata conferma di Donald Trump alle presidenziali USA, anche questo un evento difficilmente ipotizzabile prima del virus.
Un discorso a parte, di cui faccio cenno brevissimamente in questa nota, ma che meriterebbe ben altra estensione in ragione della profondità e dell’ampiezza dell’analisi e della straordinaria rilevanza spirituale e morale di chi la porta avanti, va fatto per l’attività di Papa Francesco sui temi dell’economia e dell’ambiente, che poi sono facce della stessa medaglia, attività avviata ben prima dello scoppio della pandemia su posizioni di radicale diversità rispetto al modello attuale , e proseguita via via intensificandosi. Il percorso inizia con l’esortazione apostolica Evangelii Gaudium nel novembre del 2013, prosegue con l’enciclica Laudato si’ di maggio 2015, con l’esortazione apostolica post-sinodo sull’Amazzonia Querida Amazzonia di febbraio 2020, con l’enciclica Fratelli tutti di ottobre 2020, e culmina con l’iniziativa The Economy of Francesco. I giovani, un patto, il futuro – Assisi 2020, l’incontro che si è svolto online dal 19 al 21 novembre 2020, si è rivolto a economisti, imprenditori e promotori di economia sostenibile under 35 di tutto il mondo, e ha visto 2000 partecipazioni da 115 nazioni.
Nel frattempo con le regole di distanziamento il virus sta ridisegnando le dinamiche sociali, in particolare nelle grandi città: di fatto, come affermato dall’urbanista Elena Granata alla puntata di Uomini e Profeti su Radio3 del 5 dicembre 2020, il vero urbanista oggi è il virus, che ha indotto cambiamenti che nessuna volontà ha potuto realizzare precedentemente.
Tutti questi segnali indicano una crescente consapevolezza che gli interventi che si richiedono nell’emergenza COVID 19, e che si richiederanno nel post-emergenza, necessitano di politiche radicalmente diverse da quelle in essere prima della pandemia. Quali? Per andare verso dove? Questo è il punto. La sensazione è di trovarsi in uno scenario talmente inedito, che tutto quanto è stato concepito e messo in atto finora è inadeguato: c’è bisogno di ripartire da un nuovo “orizzonte di senso”, da nuove categorie e visioni che consentano di mettere a punto nuovi strumenti. Purtroppo come in tutte le situazioni totalmente nuove, in assenza di precedenti si procede a tentoni. La mia sensazione è che tanti – forse la maggioranza di chi vive nei cosiddetti paesi occidentali – sono affezionati al modello e alla visione attuale (pre-COVID), o perché hanno rendite di posizione che non vogliono perdere, o perché il modello in fondo piace, tanto è vero che il mantra che si sente quotidianamente è: “Speriamo di tornare alla normalità prima possibile”, dove la normalità è la situazione pre-COVID.
In effetti il giocattolo messo in piedi in Occidente grazie alle politiche capitalistiche neoliberali esercita una indubbia seduzione sulle masse, in quanto privilegia la scelta del singolo invece che la decisione centralizzata: in questo sistema (almeno apparentemente) non decide nessuno, tutti sono liberi di scegliere. Ciò si nutre anche di un meccanismo di manipolazione seduttiva – già i primi neoliberali americani lavoravano fianco a fianco con i pubblicitari – che insieme alla spinta verso la crescita economica dà l’impressione alla gente di poter soddisfare tutte le proprie esigenze, siano queste spontanee o indotte: è il consumismo di massa. Si pensi a un centro commerciale: cos’altro è se non un Paese dei Balocchi per adulti? Il fatto che tutto questo sistema provochi spaventosi squilibri, sia all’interno dei paesi occidentali che tra l’Occidente e tutto il resto del pianeta, e altrettanto spaventosi disastri ambientali a scala planetaria, continentale e regionale, nonostante se ne faccia un gran parlare, di fatto finora non ha indotto significativi mutamenti di rotta.
Ci riuscirà il virus?
A dicembre, non appena è stato consentito, la gente nel fine settimana si è riversata in massa nelle vie dello shopping delle città per le compere di Natale e per gli aperitivi; a nulla sono valse esortazioni, raccomandazioni e perfino multe, a conferma della potenza seduttiva di questo modello. Anche questo mi induce a pensare quanto sia problematico disegnare scenari sul nostro futuro post-virus alternativi al modello attuale, e alla domanda: «Siamo in presenza di un cambio di paradigma?» io al momento rispondo: «Forse».
[1] Una descrizione inquietante di queste politiche si trova nel libro “Confessioni di un sicario dell’economia” del 2004 di John Perkins, pubblicato nel 2005 in Italia dalle edizioni minimum fax. Il libro ebbe grande risonanza, è stato tradotto in molte lingue e utilizzato in varie università, ed è stato oggetto di contestazioni e controversie.
[2] Il termine massa è una parola chiave nel lessico sociologico del XX secolo, vedi per esempio le locuzioni “società di massa”, “cultura di massa”, ecc.; la parola nei primi anni del ‘900 veniva utilizzata per connotare tutti coloro che non svolgono funzioni direttive e che costituiscono il materiale umano su cui si esercita l’influenza delle élite, protagoniste del processo storico.