Progressi e sfide nella lotta globale per la biodiversità
Fonte Immagine – COP16, successo mancato al negoziato Onu sulla biodiversità
Ufficio Policy Focsiv – Mentre è iniziata la COP29 sul Clima (Qual è la posta in gioco alla COP29? – Focsiv) si è conclusa pochi giorni fa la 16a Conferenza delle Parti (COP16) sulla Diversità Biologica, tenutasi a Cali, in Colombia. Essa ha messo in luce numerose sfide e complessità per quanto riguarda gli obiettivi globali sulla difesa della biodiversità: se da un lato sono stati compiuti passi significativi, dall’altro restano aperti nodi cruciali, specialmente sul fronte dei finanziamenti (vedi COP16: Key outcomes agreed at the UN biodiversity conference in Cali, Colombia). E ciò non depone bene per gli impegni finanziari che dovrebbero essere presi nella COP29.
Tra i risultati principali, seppur anche questi non siano privi di zone grigie, figura la costituzione di un nuovo organismo dedicato ai diritti delle popolazioni indigene, un passo significativo per garantire a queste comunità una partecipazione attiva e potere decisionale nelle future negoziazioni sulla gestione sostenibile degli ecosistemi. Questo organo, creato con un programma di lavoro, intende offrire alle comunità locali un canale per esprimere preoccupazioni e proporre pratiche di conservazione basate sulle proprie conoscenze tradizionali (vedi Gli indigeni per la difesa della biodiversità). Tuttavia, ha incontrato la resistenza di alcuni Paesi, tra cui Indonesia e Russia, che hanno sollevato dubbi circa i costi e l’efficacia dell’organo.
Un altro tema centrale è stato quello delle sequenze digitali genetiche (DSI), in quanto molte aziende utilizzano dati genetici provenienti da risorse naturali per sviluppare prodotti commerciali. I Paesi in via di sviluppo hanno, allora, richiesto un meccanismo che garantisca unagiusta distribuzione dei benefici delle DSI, con l’istituzione di un fondo, il fondo “Cali”, a cui le aziende che utilizzano dati genetici dovrebbero contribuire con l’1% dei profitti o lo 0,1% del fatturato. Dunque in tema di responsabilità delle aziende, nonostante l’intensa attività di lobbying, è stato raggiunto un accordo che impone alle aziende di contribuire economicamente alla protezione della biodiversità. In particolare, ciò va a colpire coloro che realizzano guadagni rilevanti sfruttando risorse genetiche naturali, come accade nell’industria cosmetica e nelle sementi geneticamente modificate; tuttavia, nel testo finale i contributi prima citati sono stati indicati come volontari, lasciando così un ampio margine di scelta e sollevando critiche in tema di sovranità nazionale.
Sul piano della biodiversità marina, la COP16 ha adottato criteri standardizzati per identificare le aree oceaniche di alto valore ecologico, facilitando il cammino verso la ratifica del Trattato globale sugli oceani prevista per il 2025. Sono stati approvati anche documenti sulle aree marine ecologicamente significative (EBSAs) e sulla tutela della biodiversità costiera e insulare. Nonostante il valore scientifico di queste aree, la COP16 ha lasciato ai singoli Paesi la libertà di decidere se proteggerle formalmente, inserendo anche criteri per aggiornare le descrizioni delle EBSAs in base a nuove scoperte scientifiche.
Il vertice ha inoltre riconosciuto il legame tra biodiversità e salute, adottando un piano d’azione volontario per integrare le questioni sanitarie ed ecologiche nelle politiche nazionali. La pandemia di Covid-19 ha rafforzato la consapevolezza dell’impatto della perdita di habitat e dell’inquinamento sulla diffusione delle malattie infettive; tuttavia, il linguaggio del piano è stato alleggerito rispetto alle prime versioni, senza fare riferimento diretto alla domanda di proteine animali o all’intensificazione agricola, fattori considerati cruciali per il rischio di zoonosi.
Analizzando, invece, le maggiori problematiche, il vertice ha messo in luce le difficoltà nell’implementazione del Quadro Globale per la Biodiversità (GBF), firmato nel 2022 a Montreal, che mira a fermare e invertire la perdita di biodiversità entro il 2030 (vedi Biodiversità: un momento cruciale per il futuro del Pianeta). Sebbene i Paesi fossero tenuti a presentare nuovi piani nazionali per la biodiversità (NBSAP), solo 44 Paesi su 196 hanno rispettato la scadenza: diversi Paesi in via di sviluppo hanno segnalato che la mancanza di finanziamenti tempestivi rappresenta il principale ostacolo all’adozione di nuovi impegni in materia, mentre nazioni megadiverse, come Brasile e India, hanno evidenziato la difficoltà di tradurre gli obiettivi del GBF nei propri contesti nazionali, anche a causa delle brevi tempistiche.
La COP16 ha anche discusso gli indicatori di monitoraggio per i NBSAP, essenziali per valutare l’efficacia dei piani nazionali, ma il quadro non ha ottenuto un’approvazione formale e sarà rivisitato nelle riunioni successive; paesi come Argentina e Brasile hanno espresso il timore che un sistema troppo rigido possa risultare difficilmente gestibile e hanno preferito un approccio flessibile.
Una delle sfide più rilevanti rimane quella dei finanziamenti. Dopo una sessione finale di oltre 10 ore, i Paesi non sono riusciti a raggiungere un accordo su un nuovo fondo globale per la biodiversità, e le discussioni si sono interrotte prima di ottenere il quorum necessario per l’approvazione. Questo ha lasciato in sospeso anche l’adozione di un quadro di riferimento per monitorare i progressi nella lotta alla perdita di biodiversità.
Il fondo “Cali” è quindi uno dei pochi risultati concreti del vertice, il che ha evidenziato quanto sia difficile ottenere impegni finanziari sufficienti dai Paesi più ricchi per sostenere la biodiversità: nonostante il riconoscimento dell’importanza di queste risorse per proteggere e ripristinare gli ecosistemi nei Paesi in via di sviluppo, i fondi promessi sono rimasti inferiori rispetto alle esigenze reali. Le nazioni del Nord globale, pur dichiarando di voler contribuire, non hanno garantito risorse certe, lasciando i Paesi meno sviluppati a dover chiedere miliardi per preservare i propri ecosistemi.
Crystal Davis, direttrice del World Resources Institute, ha sottolineato l’urgenza di un sostegno stabile per raggiungere l’obiettivo di tutelare il 30% delle terre e delle acque entro il 2030, come stabilito dal GBF; senza cambiamento e risorse, i traguardi fissati rischiano di rimanere fuori portata, con serie ripercussioni sia per la biodiversità che per il contrasto al cambiamento climatico. Per superare l’impasse, si è discusso anche di forme di finanziamento innovative, come i crediti di biodiversità (vedi Dichiarazione della società civile sulle compensazione e sui crediti per la biodiversità) e fondi ibridi. Queste soluzioni, però, hanno incontrato l’opposizione di vari Paesi in via di sviluppo, preoccupati per la possibile influenza del settore privato sulle risorse naturali.
Per concludere, la COP16 ha evidenziato quindi i persistenti ostacoli alla cooperazione globale per la biodiversità, tra cui la mancanza di un nuovo fondo globale, la limitata adesione agli impegni nazionali e le divisioni sui meccanismi di finanziamento, che hanno indebolito i risultati del vertice. Il fallimento nel raggiungere il quorum necessario e l’incapacità di adottare un quadro di monitoraggio lasciano ampi margini di incertezza sui progressi futuri, mentre la comunità internazionale cerca un nuovo slancio per raggiungere gli ambiziosi obiettivi fissati entro il 2030.
Molti degli impegni presi dovranno ora essere negoziati nuovamente nelle riunioni del prossimo anno. Nel 2026, la COP17 in Armenia rappresenterà un’opportunità per valutare i progressi e costruire sulle fondamenta poste a Cali; nel frattempo, si attendono ulteriori discussioni in eventi cruciali come la COP29 sul clima, nella speranza che i leader mondiali e altri attori finanziari intervengano per garantire risorse per una protezione sostenibile della biodiversità.