Quale capitalismo progressista per una società giusta
Fonte immagine : A Good Society. How should it be? What is necessary? -ECstep
Ufficio Policy Focsiv- Nell’ambito del nostro interesse di riflettere sul senso della crescita economica (si veda L’elefante nella stanza: possiamo far crescere l’economia senza distruggere la natura? – Focsiv; Il paradosso dell’efficienza (tecnologica) e l’importanza della sufficienza – Focsiv; Crescita senza crescita economica – Focsiv), di seguito riportiamo un estratto della lezione tenuta dal Nobel Joseph E. Stiglitz all’Università Cattolica apparso in Milano Finanza (La lezione del Nobel Joseph E. Stiglitz: un capitalismo progressivo per una società giusta – MilanoFinanza News), il quale parla dei motivi per cui il neoliberalismo ha fallito portando a disuguaglianze maggiori.
Stiglitz sottolinea come la possibilità di un capitalismo progressista possa migliorare la situazione solo in uno stato democratico, portando ad una maggiore uguaglianza delle condizioni di vita; ma afferma anche che ciò è impossibile se la “mano invisibile” della cultura oggi guida verso l’avidità. Spiega che data la grande mancanza di empatia, la libertà – tanto bramata da tutti- si basa sulla schiavitù di un altro, e che la gran parte dei guadagni di oggi sono il riflesso dello sfruttamento di ieri.
“Avevo undici anni quando mi resi conto dell’ingiustizia della nostra società. C’era qualcosa di sbagliato, pensavo, nel fatto che quella donna buona intelligente e gentile che badava a me passasse tutto il suo tempo con me invece di prendersi cura dei suoi figli. Non mi sembrava giusto neanche che avesse soltanto la prima media quando la maggior parte delle persone che conoscevo era laureata – e da me ci si aspettava lo stesso.
Questi pensieri furono amplificati, negli anni successivi, dalla discriminazione razziale, dagli scioperi dei lavoratori e dalla disoccupazione saltuaria che vedevo intorno a me mentre crescevo a Gary, nell’Indiana: una città industriale sulle sponde meridionali del Lago Michigan che vantava l’acciaieria integrata più grande del mondo. Gary fu fondata soltanto nel 1906, e quando io ero ragazzino era forse al suo apogeo, ma oggi è in pieno declino. Le preoccupazioni per l’ineguaglianza sociale, le lotte operaie e l’instabilità economica che avevo percepito così chiaramente nella mia fanciullezza mi spinsero a cambiare specializzazione all’Amherst College, passando da fisica a economia, e trasferendomi al Mit per il dottorato nel 1963.
Nei successivi sessant’anni, ho avuto la fortuna di poter unire la mia passione – capire perché il sistema funziona così – all’attivismo per cercare di cambiarlo. Ma credo di essere stato anche sfortunato, perché i cambiamenti sono stati lenti, e troppo spesso si sono mossi due passi avanti e uno indietro.
Gli effetti della globalizzazione e la crescita del populismo
Per certi versi le cose sono peggiorate negli Stati Uniti, come in molti altri Paesi avanzati: la deindustrializzazione – in parte risultato della globalizzazione, in parte esito del progresso tecnico – ha prodotto un enorme aumento della disuguaglianza. I sostenitori della globalizzazione non hanno fatto abbastanza per proteggere chi la subiva, e questo ha certamente contribuito all’ascesa del nazionalismo, uno degli aspetti più sgradevoli della crescita del populismo di destra.
Parto da due proposizioni autoevidenti: l’economia dovrebbe servire la società, e non il contrario; e la società che dovremmo creare è una società giusta, libera, inclusiva e sostenibile. John Stuart Mill si è occupato di un aspetto essenziale di questo problema nel suo saggio Sulla libertà: egli sostiene che il problema della libertà deve essere riaffrontato periodicamente via via che l’economia e la società cambiano, e io credo che sia venuto il momento di farlo. In un certo senso, sia Milton Friedman in Capitalismo e libertà, sia Friedrich von Hayek in La via della schiavitù rivisitarono questo problema intorno alla metà del secolo scorso.
Ma entrambi erano degli ideologi, e arrivarono alle risposte sbagliate: la scienza economica ha dimostrato che la cieca fiducia di Friedman e Hayek nell’efficacia dei mercati era del tutto priva di fondamento, e che le loro tesi più generali – che un mercato senza restrizioni assicura la massima libertà al più grande numero di individui, e che non solo favorisce, ma è perfino indispensabile per la libertà politica – erano anch’esse infondate. Hayek temeva che il welfare state stesse avviando i Paesi verso la schiavitù; quello che abbiamo visto è che il neoliberismo ha posto il mondo sulla strada per il fascismo. Friedman ha parlato di “libertà di scegliere” (titolo di un altro dei suoi libri più famosi); ma quello che abbiamo visto è che il capitalismo senza limiti significa “libertà di sfruttare”.
Libertà e gradazione nelle scelte
Io credo che quasi tutti condividiamo un concetto generale e intuitivo di cosa costituisca una società buona: una società popolata di individui onesti, che esprimono pienamente il loro potenziale, che esercitano la loro creatività, che interagiscono con gli altri in modo onesto, cordiale e compassionevole. In sostanza questi individui, che immaginiamo come gli abitanti di una società buona, sono l’antitesi dell’essere egoista che è al cuore dell’homo oeconomicus.
Il primo teorema fondamentale dell’economia del benessere evidenziava la capacità del comportamento egoistico (auto-interessato) di conseguire l’efficienza economica, ma nessuno si è mai sognato di pretendere che tale egoismo, in sé, fosse degno di essere lodato. Una società buona, invece, riflette quelli che potremmo definire i valori dell’Illuminismo, e in particolar modo la tolleranza, ma non solo: le disuguaglianze, in ogni ambito, dovrebbero essere limitate, e le opportunità di realizzare il proprio potenziale individuale illimitate.
Il fallimento della nuova economia del benessere
Per circa un secolo, l’economia scientifica ha fatto di tutto per separarsi dalla filosofia morale, dalla quale era nata. L’economia del benessere, nel giudicare l’efficienza dell’economia, e in particolare dell’economia di mercato, era incentrata sul concetto di efficienza nel senso di Vilfredo Pareto e cercava soluzioni tali per cui nessuno potesse migliorare ulteriormente la propria condizione senza peggiorare quella di un altro. Di fatto, gran parte dell’analisi normativa regredì a forme di utilitarismo primitivo, spesso con parametri ancora più semplici, basati esclusivamente sui livelli medi di produttività e disuguaglianza.
Questo è stato ed è particolarmente vero negli Stati Uniti, dove la destra allude spesso alla fondazione della nazione e alla lotta americana per la libertà. Questo linguaggio è una parte centrale del mito della fondazione – ed è un mito. Perché mentre Thomas Jefferson vergava le parole «Tutti gli uomini sono stati creati uguali…», continuava a essere un padrone di schiavi. La Costituzione, scritta da ricchi uomini bianchi, molti dei quali possedevano schiavi, non a caso preservò la schiavitù: se di libertà si trattava, era la libertà di pochi a spese dei molti. E questo è un fatto fondamentale, un fatto che la pandemia ci ha messo davanti agli occhi con tutta la sua forza: la libertà di una persona è la schiavitù di un’altra. O, come ha detto Isaiah Berlin: «La libertà dei lupi ha spesso significato la morte delle pecore».
I gradi di libertà delle scelte
Permettetemi di fermarmi un attimo per riflettere in termini più generali sul modo in cui un economista potrebbe pensare la libertà. Essenzialmente si tratta del perimetro delle scelte: ciò che un individuo può fare, le opportunità date a ognuno, incluse le opportunità di realizzare il proprio potenziale. Un modo di pensare il grado di libertà dato a una persona è proprio la quantità di opportunità di cui dispone. Una persona che sta per morire di fame non ha di fatto nessuna libertà: fa ciò che è necessario per sopravvivere.
Una volta pensata la libertà in questi termini, è chiaro che debbano esserci dei trade-off: l’espansione della libertà di qualcuno potrebbe comportare la riduzione della libertà di un altro. Questo genere di compromessi è diventato quanto mai importante man mano che la nostra società si è trasformata da semplice economia agraria in una complessa economia industriale. In una economia primitiva, semplici regole come “non rubare” – che restringono la libertà del ladro mentre espandono quella di tutti i proprietari che non subiranno dei furti – possono bastare; oggi non più.
Ogni volta che ci sono delle esternalità – azioni intraprese da un determinato individuo che hanno un impatto negativo sugli altri – quelle azioni intaccano necessariamente la libertà altrui. Le esternalità sono pervasive nella nostra economia e nella nostra società. La decisione di alcuni individui di non indossare una mascherina o di non farsi vaccinare aumentava le probabilità degli altri di contrarre il Covid-19, di essere ricoverati in ospedale e perfino di morire. Gli appassionati di armi sembrano credere che la libertà di girare con un fucile AK-15 sia più importante della libertà degli altri di vivere. È uno spettacolo a cui assistiamo quasi ogni giorno negli Stati Uniti, dove gli omicidi di massa non danno segno di arrestarsi.
Non è detto che debbano sempre esserci dei trade-off. Le azioni collettive – le azioni pubbliche, inclusi gli investimenti nella ricerca fondamentale, nell’istruzione e nelle infrastrutture – possono espandere le opportunità di tutti, senza eccezioni; e quando sono ben pianificate, possono farlo anche considerando le tasse che devono essere imposte per finanziarle.
Una delle arene in cui ho enfatizzato che potrebbero non esserci dei trade-off è la disuguaglianza: ne Il prezzo della disuguaglianza ho sostenuto che, per un insieme di ragioni, potremmo ottenere una migliore performance economica se riuscissimo a ridurre le disuguaglianze all’interno delle nostre società.
I bilanciamenti necessari
Ma come dovremmo pensare questi trade-off? Adam Smith, nella sua Teoria dei sentimenti morali (1759), forniva una risposta su come essi sarebbero valutati da un osservatore imparziale. John Rawls ne fece un’analisi più formale nella sua Teoria della giustizia, secondo la quale dovremmo valutare la giustizia di qualsiasi distribuzione di reddito da dietro il velo dell’ignoranza, cioè prima di sapere in quale condizione ci troveremmo, se ricchi o poveri.
Suggerisco di ampliare questo concetto per prendere in considerazione l’intera gamma dei sistemi istituzionali e degli effetti che questi sistemi hanno sul benessere, incluse le nostre opportunità, le nostre libertà fondamentali e la natura della nostra società. Qui, assumo una prospettiva apparentemente rawlsiana per criticare l’individualismo metodologico, e per affermare che, dietro il velo dell’ignoranza, noi, come individui, non valutiamo gli effetti sulla società soltanto in termini individualistici, ma includiamo nelle nostre valutazioni anche le relazioni sociali, l’esercizio del potere (o, in termini più neutrali, i sistemi di governo) e anche valori più ampi come quelli che ho elencato all’inizio di questa lezione.
Quanto ai trade-off che occupano il centro del dibattito politico negli Stati Uniti, a me sembrano ovvie le risposte che verrebbero date in una società giusta: controlli sulle armi, obbligo di mascherina e di vaccino, e una distribuzione più egualitaria del reddito e della ricchezza. La destra, soprattutto i libertari, obietta alle redistribuzioni che emergono da questo tipo di analisi sulla base di un supposto diritto morale ai loro guadagni: sono la giusta ricompensa dei loro sforzi e dei loro risparmi.
Ricchezza e legittimità morale
Nel mio prossimo libro, Freedom and Liberty, sosterrò che anche in una economia perfettamente competitiva, in cui le remunerazioni dei fattori di produzione fossero uguali ai rendimenti marginali, non sussistono basi di sorta per simili rivendicazioni, perché né le dotazioni con cui un individuo si affaccia alla vita, né le remunerazioni che ne ricava hanno alcuna legittimità morale in senso profondo.
La fortuna determina moltissime cose – la nostra eredità genetica, oltre che finanziaria – e molto capitale umano viene trasmesso da una generazione all’altra. Non possiamo rivendicare alcun merito per queste eredità. Non scegliamo i nostri genitori. Ma, cosa ancora più importante, molta della ricchezza ereditaria esistente al mondo, trasmessa per generazioni, è fondata su forme di sfruttamento: sulla schiavitù, sul commercio dell’oppio, sulla colonizzazione, sullo sfruttamento del potere di mercato. Ma questo significa anche che i rendimenti dei fattori non hanno alcuna legittimità morale, perché sono un prodotto del mercato, determinati da chi possiede ricchezze, ricchezze che, almeno fino a un certo punto, e forse in gran parte, non hanno legittimità morale.
Una volta riconosciuto questo, e riconosciuto il fatto che gran parte dei guadagni, oggi, è un riflesso dello sfruttamento – non solo del potere di mercato, ma delle asimmetrie nell’informazione, ivi compreso lo sfruttamento delle vulnerabilità degli altri – diventa ancor più chiaro che le rivendicazioni di un diritto morale ai guadagni ottenuti in una economia di mercato sono, nel migliore dei casi, deboli.
Le regole necessarie per capitalismo e democrazia
Vivere e lavorare insieme richiede norme e regolamentazioni. Se le società semplici non hanno bisogno che di dieci comandamenti, i codici di oggi occupano decine di volumi. I mercati – e più in generale le società – non esistono nel vuoto: devono essere strutturati da leggi e regole per prevenire le esternalità negative, o almeno per limitarle, e promuovere le esternalità positive, favorendo l’azione collettiva laddove essa può contribuire al benessere della società.
Almeno in alcuni casi, gli individui potrebbero essere educati a internalizzare queste esternalità. Noi cerchiamo di insegnare ai nostri figli a fare attenzione agli altri, a pensare agli effetti delle loro azioni sugli altri. Speriamo che diventi parte delle loro identità l’essere altruisti, gentili e coscienziosi. Che non lascino rifiuti in giro, che non suonino inutilmente il clacson, che non mettano la musica ad alto volume disturbando i vicini. Ci sono mille modi in cui le azioni di un singolo possono peggiorare la vita degli altri, e le persone che fanno attenzione agli altri prendono almeno in considerazione questi effetti.
Se lo fanno in modo adeguato, allora non c’è nemmeno bisogno di regolamenti e leggi. In un libro in uscita scritto con Allison Demeritt e Karla Hoff, parliamo di questo concetto come dell’altra mano invisibile: la mano invisibile della cultura, che a volte guida la società verso il bene. Ma come la mano invisibile di Adam Smith, che a volte definisco paralizzata, anche questa mano invisibile, perfino nelle condizioni apparentemente favorevoli della competizione perfetta, può generare risultati meno che ottimali, come quando i membri di una cultura escludono i membri di un’altra.
I danni del neoliberismo e dei nuovi populismi
Il neoliberismo era un tipo di gestione economica che liberava il mercato da tutti i vincoli: era la versione, adattata per il XX secolo, del laissez-faire ottocentesco. In mezzo a queste due ere, secondo economisti come Friedman e Hayek, ci fu un’era di intrusione governativa: regolamentazione finanziaria e commerciale, big government, tassazione elevata.
L’idea era semplice, anzi, direi semplicistica: abbassare le tasse e demolire la regolamentazione avrebbe sprigionato il dinamismo potenziale dello spirito umano e stimolato la crescita; e anche se quella crescita non fosse stata condivisa equamente da tutti, una parte di essa sarebbe sgocciolata fino al fondo della scala sociale, e tutti nel complesso ci avrebbero guadagnato. Il prefisso “neo” in neoliberismo era un accenno all’idea che le lancette dell’orologio sarebbero tornate indietro – anche mentre il mondo andava avanti.
Come ho già notato, in una economia urbanizzata, congestionata, interdipendente, finanziarizzata e fondata sulla conoscenza, le esternalità e i beni collettivi sono più importanti, e c’è bisogno di più – non di meno – regolamentazioni e investimenti pubblici. Stando così le cose, non sorprende che il neoliberismo abbia avuto esiti disastrosi praticamente ovunque. E per il Paese che vi si gettò con più entusiasmo, gli Stati Uniti, fu il disastro peggiore: la crescita rallentò e la disuguaglianza crebbe; l’aspettativa di vita scese e la disparità sanitaria aumentò. Il Paese sprofondò nella più grave crisi finanziaria degli ultimi settantacinque anni – e trasmise la propria devastazione al resto del mondo.
I pericoli dei nuovi populismi
Ma i pericoli del populismo di oggi, negli Stati Uniti e altrove, sono ancora più gravi. Una fede cieca nelle meraviglie dell’avara mano invisibile, nella convinzione di Gordon Gekko secondo cui “l’avidità è buona”, produce una società in cui più individui sono autenticamente egoisti, un mondo di materialismo sfrenato in cui la natura stessa della verità viene denigrata e la scienza confutata.
L’ironia è che in un sistema simile nemmeno il capitalismo può prosperare, perché manca la fiducia. Donald Trump è l’indecorosa punta di questo brutto iceberg: sotto la superficie, di persone come lui ce ne sono a milioni, per quanto i loro comportamenti possano essere meno estremi. L’economista Albert Hirschman sottolineava che le economie non possono funzionare in assenza di fiducia, o almeno, non possono funzionare bene senza di essa: un’idea che successivamente è stata sostanziata da un grande corpus di ricerche. Il capitalismo sta creando un tipo umano che divorerà il capitalismo stesso: il capitalismo senza riforme potrebbe non essere sostenibile.
E le stesse caratteristiche che hanno reso insostenibile il capitalismo potrebbero rendere insostenibile la democrazia. Le disuguaglianze economiche sono troppo grandi, l’empatia troppo scarsa. La polarizzazione che ne deriva rende impossibili i compromessi necessari per la salute della democrazia. E quel che è peggio, la negazione della scienza, per non parlare della validità delle istituzioni dedicate alla sua verifica, rende il progresso e l’aggiudicazione delle controversie – per esempio, su chi abbia vinto un’elezione – estremamente difficili.
Hayek si preoccupava che l’intervento eccessivo da parte del governo ci avrebbe posto sulla via della schiavitù, ma contrariamente a quanto pensava Friedman, che sosteneva che un mercato senza restrizioni avrebbe massimizzato la libertà individuale e che fosse essenzialmente necessario per preservare la libertà politica, abbiamo visto che i mercati senza restrizioni limitano la libertà di gran parte della popolazione – e, cosa forse ancora più importante, stanno spianando la strada alla distruzione delle libertà politiche.
L’alternativa del capitalismo progressista
Uno degli aspetti peggiori del neoliberismo è la sua pretesa che non esistano alternative: la premessa del neoliberismo era che le leggi dell’economia dettano l’insieme di politiche economiche che andranno a vantaggio di tutti, e che qualsiasi altro approccio si rivelerebbe disastroso.
Nei miei scritti recenti, in particolare Popolo, potere e profitti. Un capitalismo progressista in un’epoca di malcontento, ho tentato di indicare un’alternativa, che ho definito capitalismo progressista e che prevede un equilibrio migliore tra Stato, mercato e società civile, e una serie di meccanismi istituzionali come cooperative e istituzioni no-profit. Il capitalismo progressista riconosce e coltiva un insieme di valori più ampio del materialismo egoistico. Riconosce anche che in una società complessa deve esserci una decentralizzazione, ma le unità decentralizzate non devono essere tutte imprese a scopo di lucro e senza scrupoli del tipo immaginato da Milton Friedman.
C’è bisogno di una azione collettiva, e una parte di questa azione collettiva dovrà coinvolgere lo Stato, ma dovrebbe avere anche molte altre forme: lo Stato dovrà regolamentare, tassare, spendere, scrivere norme e regolamenti e contribuire a progettare le istituzioni che governano la nostra società. E poiché lo Stato deve svolgere un ruolo tanto importante, la gestione pubblica ha un peso: il capitalismo progressista può funzionare soltanto in uno Stato democratico. E uno Stato può essere davvero democratico solo se ci sono dei sistemi di pesi e contrappesi; ma questi sistemi non funzioneranno in presenza di diseguaglianze eccessive. Perciò, una certa misura di eguaglianza è sia il risultato del capitalismo progressista, sia una condizione necessaria per il suo funzionamento.
Il capitalismo progressista creerà maggiori opportunità: più individui che esprimono le loro potenzialità; più individui che godono di libertà reali; più libertà di scelta; più libertà dallo sfruttamento. Ci sarebbe più eguaglianza al lordo delle tasse: una miglior redistribuzione. Il capitalismo progressista opererebbe anche più redistribuzione per garantire una maggiore eguaglianza delle condizioni di vita.
Possiamo fare esperimenti mentali e reali sulle conseguenze dei diversi sistemi economici, sociali e politici. Io spero che gli esperimenti associati al capitalismo progressista produrranno più individui in maggiore sintonia con i valori che ho articolato all’inizio di questo discorso: i valori e i comportamenti che costituiscono una società buona, che condurrebbero a una prosperità condivisa, al dinamismo sociale, a una democrazia che funziona, senza l’estremismo, l’estremizzazione e il populismo che oggi contraddistinguono l’America e così tanti altri Paesi.”