La campagna Abiti Puliti, sezione italiana della
Clean Clothes Campaign, è una rete di più 250 partner che mira al miglioramento delle
condizioni di lavoro e al rafforzamento dei diritti dei lavoratori dell’
industria della moda globale.
All’interno del
rapporto GCAP del 2018, il contributo di Deborah Lucchetti,
portavoce della Campagna Abiti Puliti, mette in luce la grande disuguaglianza esistente a causa della
mancanza del rispetto degli standard minimi di lavoro dignitoso che ostacola quindi il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, e in particolare del decimo.
Il
nuovo rapporto della
Clean Clothes Campaign dedicato alla Romania analizza ampie ricerche che coprono gli
ultimi sei anni, con particolare attenzione al periodo 2017-2018. Quasi mezzo milione di persone lavora nell’industria della moda rumena – la
maggiore forza lavoro di questo settore in Europa.
Le principali destinazioni di
esportazione dell’abbigliamento “
Made in Romania” sono
l’Italia, il Regno Unito, la Spagna, la Francia, la Germania e il Belgio. I marchi rilevati durante le indagini spaziano da discount e aziende di fast fashion a marchi del lusso di alta gamma, tra cui
Armani, Aldi, Asos, Benetton, C&A, Dolce & Gabbana, Esprit, H&M, Hugo Boss, Louis Vuitton, Levi Strauss, Next, Marks & Spencer, Primark e Zara (Inditex). Con quasi 10.000 fabbriche e laboratori, la Romania rappresenta a uno dei paesi di produzione storici per i marchi di moda dell’Europa occidentale.
Da più di un decennio, l’industria dell’abbigliamento del Paese soffre di una drammatica
carenza di manodopera, a causa delle condizioni di lavoro pessime. I lavoratori considerano i salari bassissimi del settore come il problema più grave: la paga media dei lavoratori intervistati per un orario di lavoro regolare è pari
solo al 14% del salario dignitoso. Contrariamente alla legge, una cifra spesso inferiore al salario minimo legale, che di per sé costituisce comunque solo il 17% del salario vivibile. Sempre secondo i lavoratori, il mancato pagamento del salario minimo legale costituisce la norma. Molti di loro riferiscono di essere
costretti a contrarre prestiti per far fronte alle spese quotidiane, come quelle di riscaldamento in inverno. Ciò significa che la
maggior parte è fortemente indebitata.
Oltre a contrarre debiti, i lavoratori e le loro famiglie sopravvivono, nonostante la povertà dei salari, grazie all’
agricoltura di sussistenza, condotta oltre le lunghe ore di lavoro in fabbrica, e grazie al
sostegno dei membri della famiglia che migrano verso l’Europa occidentale in cerca di lavoro. Quasi tutti gli altri lavoratori intervistati hanno raccontato di avere familiari che lavorano nell’edilizia o nell’agricoltura, ad esempio
in Italia o in Francia. La migrazione della manodopera verso l’Occidente è una
conseguenza diretta della povertà dei salari.
Oltre ai bassi salari, i lavoratori della metà delle fabbriche oggetto di indagine riferiscono di
ore di lavoro straordinario non retribuito, così come di
ventilazione e aria condizionata non funzionanti in un Paese dove le estati possono essere roventi. La ricerca ha riscontrato anche casi di
straordinari forzati e di accesso limitato o mancato all’acqua. Tutti i lavoratori si sono lamentati di
essere vittime di bullismo: vengono maltrattati verbalmente, molestati e costantemente minacciati di licenziamento.
La
Clean Clothes Campaign chiede che
l’Unione Europea sviluppi una politica comune sui salari minimi per garantire in tutti gli Stati membri il rispetto del diritto umano a un salario vivibile, applicando di fatto il suo “Pilastro dei diritti sociali”. In particolare al Capitolo II, paragrafo 6 di questo documento si legge che
“i lavoratori hanno diritto a salari equi che garantiscano un tenore di vita dignitoso” e che “
la povertà lavorativa deve essere prevenuta”.
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