UN’ESTATE DIVERSA CON IL VISPE
Vi riportiamo alcune delle più belle testimonianze raccolte dall’Organismo Federato VISPE tra i giovani che hanno scelto i loro campi di lavoro in Burundi per trascorrere un’estate, decisamente fuori dal comune.
“Condivisione? Un mondo di gesti e di idee, di pensieri e di sguardi. Non so se sarò in grado di rendere al meglio questo “mondo”, con la mia scarsa retorica da ingegnere, ma i buoni propositi del cuore ci sono. Due dimensioni: quella africana e quella italiana. La dimensione africana, quella che più mi ha affascinata, mentre quella italiana mi ha un po’ sorpresa. Perché? Interessante vedere come noi, giovani sperduti in una civiltà disumana, abbiamo bisogno di percorrere 9 ore di viaggio, di attraversare colline, di arrivare nel cuore del mondo per riuscire a condividere. Ebbene, la condivisione di idee, di opinioni, il confronto, sono stati i pilastri del nostro viaggio, che è stato prima di tutto un viaggio interiore, alla ricerca di noi e di Dio. In un’altra realtà, in un contesto italiano, nessuno avrebbe pensato di condividere con degli estranei quello che stava vivendo, le nostre paure, le nostre gioie, i nostri dilemmi e le nostre lacrime; eppure l’abbiamo fatto, abbiamo condiviso tra di noi tutto questo. Condividere attraverso le parole, ma anche i gesti: lavare i piatti insieme, zappare la terra, impastare l’ubudongo (fango), giocare con i bambini, scherzare con le sorelle.
Questa è la prima ricchezza che mi porto a casa: un senso di pienezza degli affetti e delle vicinanze, un senso di amicizia e di comprensione reciproca.
L’altra sfera su cui vorrei riporre il termine da me scelto è la sfera africana, che tanto mi ha stregata, quanto mi ha scossa, spaventata, ribaltata, fatta sentire tanto piccola. La semplicità con cui chi ha poco (o niente), a livello materiale, riesce a condividere questo “niente” con chiunque gli stia attorno. E sottolineo il “chiunque”; la domanda che mi gira nella testa, e che picchia forte, cerca una risposta, che già so, ma che non voglio ammettere: quanti di noi, gente “civilizzata” riuscirebbe a condividere con un estraneo, magari un extracomunitario (quello che noi effettivamente eravamo in quella terra), il poco che ha? Potrebbe essere facile accettare l’idea della solidarietà tra di loro, compaesani, ma vedere la generosità con cui accolgono il bianco (che tanto ha fatto soffrire la loro terra) nella loro casa, l’amore con cui ti accompagnano al fiume, rinunciando ad un giorno di lavoro, la voglia con cui cercano di comunicare con te con il sorriso, letteralmente di distrugge dentro. Ti distrugge il confronto con la nostra civiltà. Ti distrugge la verità che viene a galla ma che non vuoi accettare. Ti distrugge la nostra inferiorità e non reggi il confronto. Condivisione. Condivisione di
una cena umile. Condivisione della fatica del lavoro. Condivisione di Dio. Benedizioni. Benedizioni che ti torneranno nel cuore.
Selene
Il viaggio di questa estate mi ha fatto capire che il tempo è indispensabile per ogni cosa. Se non ci fossimo fermati per tutto il mese probabilmente non avrei avuto il tempo di adattarmi e di capire quel paese cosi diverso e quella cultura cosi distante dalla nostra. Se fossimo tornati dopo la seconda settimana probabilmente sarei tornato razzista.
Solo dopo i tre giorni a Bujumbura (capitale) ho iniziato davvero a sentirmi un po’ come a casa (o almeno non come l’estraneo umuzungu che tutti fissano e tanti insultano).
Nelle prime due settimane mi saltavano agli occhi solo le cose negative: gli ubriaconi, gli insulti, le risate alle tue spalle, lo schiavismo della donna, la povertà, il sentirti osservato ovunque e comunque, il vedere tutte quelle persone che non fanno niente (o almeno danno l’impressione di non fare niente). Queste cose hanno rappresentato, almeno per me, una notevole difficoltà da superare. Il sentirti estraneo non è mai bello ma il sentirti l’estraneo indesiderato è ancora peggio.
Il tempo, il gruppo e un po’ di spirito di adattamento mi hanno permesso di comprendere un po’ meglio il Burundi e di non sentirmi più a disagio. L’ultima settimana siamo andati io e Fabio al saponificio a piedi e diverse persone ci hanno appellati “umuzungu, umuzungu!!”; ecco, queste parole che le prime due settimane mi avrebbero fatto sentire a disagio e mi avrebbero spinto all’odio verso quelle persone ora ci sembravano solo una cosa senza importanza, sopra cui ridere e rispondere “si, siamo umuzungu!”.
La povertà non è mai bella ma dopo i viaggi fatti ho capito che in realtà la povertà è poca cosa. La povertà è la stessa ovunque (ovviamente in quantità e qualità diverse ma sempre povertà è), il modo di affrontarla invece no. La dignità di molte persone (soprattutto anziane) mi ha impressionato davvero molto. Il vedere un vecchietto di 86 anni con 7 figli morti, decine di nipoti morti, la moglie morta, la casa di fango e tutte le proprietà espropriate dallo stato durante la guerra che ride, parla e ci accoglie con grande rispetto mi ha dato una grande speranza. Quell’uomo aveva perso tutto ma non era diventato alcolista, non era diventato scontroso, non odiava ne si lamentava; stava sulla soglia della sua casa su una tela mezza rotta e leggeva. E quando ci ha visti si è spalancato sul suo viso un sorriso ed ha ordinato alla moglie (non posso pretendere che si alzasse lui) di portare fuori l’unico sgabello che aveva. I suoi occhi sono i più intensi che io abbia mai visto di persona.
I pregiudizi ci sono sempre ed è anche normale che ci siano. Finché non si vive sulla propria pelle un’esperienza e non si vive una realtà diversa i pregiudizi (e non solo quelli negativi) sono l’unica cosa che hai a disposizione per poter farti un’idea. Puoi documentarti, informarti, sentire racconti ma niente di tutto ciò può compensare l’esperienza dal vivo. E’ l’esperire che ti permette di iniziare a capirci qualcosa, prima sono solo tante parole e tanta teoria. Sono partito con dei pregiudizi e sono tornato con dei giudizi (anche in questo caso non sempre positivi) ed è tutto merito dell’esperienza.
Sia io che Fabio, infine, portiamo a casa un ricordo bellissimo dei missionari che vivono li. Continuiamo a ripeterci che abbiamo trovato delle persone straordinarie. Gil, mama Fiore, Anna ecc. sono tutte figure di riferimento che rimarranno indelebili in noi (o almeno lo spero). Possiamo solo sperare che siano felici e sereni perché è ciò che si meritano ed è ciò che auguriamo loro con sincerità.
Millo
Il mese in Burundi è stata un’esperienza bella, interessante, formativa ma sicuramente non facile perché ti trovi catapultato in un mondo nuovo e completamente diverso da quello a cui sei abituato, e vedere foto o sentire tanti racconti non serve a nulla perché è solo quando ti trovi là, in quel posto, in mezzo a quella gente che capisci le difficoltà, i problemi che ci sono ma anche le gioie che puoi ricevere. E’ stata un’esperienza sicuramente positiva ma non facile soprattutto all’inizio quando ti devi ambientare, essere capace ad abituarti (anche in fretta) ai loro ritmi e saper rinunciare alle nostre necessità primarie come avere l’acqua calda tutti i giorni o la luce anche di sera; necessità che noi diamo troppo per scontate ma che scontate non sono.
Il momento più duro, per me, sono stati i quattro giorni a Masabo; giorni belli perché si entra più a contatto con la gente del posto, con la loro realtà e il loro modo di vivere, ma duri perché, anche noi, abbiamo potuto assaporate un po’ i loro modi di vivere eliminando tutti i comfort che abbiamo qui in Italia. E quindi, quando non c’è l’acqua ma solo un secchio e si è in quattro a doversi lavare, bisogna imparare a dosare bene ciò che abbiamo per permettere a tutti di usufruirne, oppure se non c’è la luce e bisogna cucinare, ci si arrangia con le pile che si hanno a disposizione.
Al di là delle difficoltà e degli smarrimenti che ho incontrato penso che chiunque dovrebbe fare un’esperienza del genere perché ti apre gli occhi, vedi una realtà diversa, capisci quante cose abbiano noi e poi si impara anche ad apprezzarle.
Micaela
Il viaggio in Burundi mi ha trasmesso l’importanza principalmente di due concetti fondamentali: il tempo e il silenzio.
Non sempre il concetto di tempo è interpretato nello stesso modo. A volte anche solo la percezione delle distanze è differente se si viaggia in aereo, in macchina o a piedi. La realtà in Burundi mi ha trasmesso questo: per andare all’ospedale, a messa, semplicemente a trovare un amico o un parente nel paese di fianco ci si può mettere 2 o 3 ore o anche di più a piedi. Per noi che viviamo qui è inimmaginabile come situazione. Ecco che già il concetto di tempo inizia a essere relativo al posto in cui viviamo. In altro modo invece noi che risparmiamo così tanto tempo perché ci muoviamo veloci, dobbiamo sempre correre, fare dieci cose al giorno, spesso quando ci fermiamo perché non abbiamo niente da fare ci sentiamo spaesati, e sentiamo l’esigenza di fare qualcos’altro, di sentire altre voci, e allora si accende la televisione, la radio, il computer, si legge un libro, si telefona a qualcuno.
La mancanza di distrazioni ci obbliga a passare del tempo con noi stessi, cosa non sempre facile, e spesso si scoprono interessanti informazioni riguardo la nostra vita. Quindi ci ritroviamo con del tempo guadagnato da una parte e del tempo perso dall’altra, forse la cosa migliore sarebbe riuscire a risparmiare il tempo morto e trasformarlo in tempo vivo! Dare qualità al tempo che stiamo vivendo in modo da sentirsi appagati di quello che ogni giorno viviamo.
Il silenzio. Solo quando nessuno parla o si muove, quando la natura non si fa sentire, allora scopriamo il piacere del silenzio. Spesso capita in Burundi perché disturbi di quiete ce ne sono pochi. La sensazione è rilassante, fa sentire in pace, ed è sempre piacevole. Qui il silenzio bisogna andarselo a cercare, lì invece è già subito pronto. Un’altra idea relativa al silenzio l’ho vissuta nel rapporto tra le persone. Quando ci si incontra e si ha il piacere di vedersi, di stare insieme, a volte capita che si rimane senza parlare, stando in silenzio, ma comunque si sta insieme. Spesso a noi è capitato che, non sapendo la lingua, eravamo accolti in casa o in cortile per stare lì qualche minuto e poi andare via felicemente, senza aver detto niente. E’ un modo che fa capire che anche solo la presenza di una persona è cosa gradita.
Un’altra cosa che mi ha suscitato l’esperienza in Burundi è una riflessione relativa a quelli che noi chiamiamo problemi. Lì abbiamo conosciuto persone che le difficoltà le hanno quotidianamente, le hanno vissute e purtroppo le vivranno ancora. E sono difficoltà decisamente diverse da quelle con cui abbiamo a che fare noi. Il vedere con i miei occhi questa realtà sicuramente mi fa dare un valore diverso ai miei di problemi…anche perché spesso mi chiedo se a sto punto posso ancora chiamarli problemi!
Marco
Semplicità è una delle parole che mi porto a casa da quest’esperienza africana o meglio, è una delle lezioni ascoltate…Cosa in Africa mi ha parlato della semplicità?
La terra rossa che calpesti ovunque perché là l’asfalto quasi non c’è ;
il pieno contatto con la natura perché là palazzi e stazioni non ci sono;
l’essenzialità della vita quotidiana perché là cinema e teatri, mostre ed eventi culturali, occasioni professionali, ristoranti e concerti non ci sono;
la disintossicazione da cellulari, internet e social network;
la diversa concezione del tempo, che non si perde o si guadagna come qua ma semplicemente si vive;
il ritmo che ti dà la terra, perché se piove là ci si ferma;
l’apertura dello spazio che ti permette sguardi lontani;
l’abbigliamento che è necessario indossare là;
lo sguardo delle persone che entra, penetra e ribalta;
il tipo di interazioni sociali che hai là, fatte di strette di mani, abbracci, saluti, sguardi, sorrisi, risate, poche parole, dedicarsi tempo;
il valore che ha là lo stare semplicemente insieme;
Ed ecco la sfida che mi porto qui, in questo mondo velocissimo, stressante e sofferente: allentare, respirare, guardare, stare…perché quella semplicità sia possibile anche qui e regali la stessa pace e contentezza!”
L’assenza di stimoli e il tempo dilatato che ci sono in Burundi rendono l’essenziale più evidente, è come se si guardasse tutto con una lente d’ingrandimento: balza molto più all’occhio ogni cosa, ciò che è bello, ciò che è brutto, ciò che è significativo, ciò che è superfluo, le sensazioni personali, i propri pensieri, la propria voce, la voce degli altri e questo non è banale né scontato!
A Milano è come se fossimo tutte schegge impazzite che corrono dentro un vortice rapidissimo: le immagini sono così veloci e numerose che sembra che niente resti, niente possa riempirti e calmarti. Bisogna mettercisi d’impegno per rallentare!
Un’altra cosa che mi ha profondamente colpito in Africa sono le interazioni sociali: là vieni accolto in quanto essere umano. Punto. Non è necessario “vendere la propria merce” per assicurarsi di essere visti. Non importa di chi si è figli, che lavoro si fa, quanto prestigio sociale si ha, ciò che importa è stare insieme, condividere il tempo. E non importa nemmeno quello che ci si dice, non importa trovare chissà che argomenti di conversazione: ciò che conta è star lì, guardarsi negli occhi, fare piccole cose insieme.
Simona
Non è facile descrivere le emozioni di un mese trascorso in Burundi. Già, proprio il Burundi, un Paese che spesso diventa sinonimo di un posto sperduto in chissà quale parte del mondo e diventato ormai un modo di dire. E forse, ripensandoci, è chiaro anche il perché. Nei primi giorni trascorsi in terra africana sembra davvero di stare su un altro pianeta: rapporto ostile con la popolazione, due lingue completamente differenti, realtà di povertà estrema, episodi di disumanità sentiti raccontare.
I primi giorni sono davvero difficili perché si parte con un’idea che pian piano viene stravolta e all’inizio può suscitare delusione e sconforto. E’ un po’ il pensiero dei primi giorni: “ma qual è il mio scopo qui? Sono il turista di turno. Vorrei fare, fare, fare, fare di più”. Il Burundi mi ha spiazzato, o almeno, ha fatto crollare quel desiderio, forse presunzione, di voler essere utile in tutto e per tutti. Poi pian piano, e non senza difficoltà, matura una sorta di “armonia”, chiamiamola così, con la realtà che ti circonda; quest’ultima ti aiuta a vivere l’esperienza pienamente, svuotata dalle aspettative, pensieri e delusioni dei primi giorni. Ripenso al regalo più grande che porto a casa, che non è la fatica, nemmeno la sensazione di essere stato utile o la soddisfazione di aver portato a termine un certo progetto; ma è l’aver condiviso insieme, bianchi e neri, la vita di tutti i giorni. Turasangira, condividiamo! E’ una parola che porto nel cuore perché rappresenta un po’ quel “rinnovamento” del pensiero con cui sono partito. Essa supera infatti la pretesa e forse presunzione di voler trasmettere la felicità con i nostri gesti d’aiuto e presenza, ma rivela la bellezza di provare questa gioia vivendola insieme. Una gioia che proviene da gesti semplici come una
passeggiata con i ragazzi Twa, una chiacchierata in mezzo “frankirundinglese” con chi vuole solo raccontare un po’ di sé, una schitarrata a Masabo con chi ha scavato con te una buca tutta la mattinata, un pranzo a base di fagioli e banane condiviso, una partita di calcio Italia – Burundi, una cantata metà italiana metà kirundi.
Tornati in Italia sono queste le emozioni che ora mi mancano e spesso rimpiango. Poi però sorge spontanea una domanda, ma è giusto? E’ troppo semplice associare la gioia provata nel condividere a volti di colore o a una compagnia che ora sentiamo lontana. Sento di essere provocato ogni giorno da questo “turasangira”, quando i volti che incontro sono quelli bianchi della mia quotidianità. Il Burundi mi ha trasmesso il dovere e sicuramente il desiderio di sviscerare da questa esperienza un messaggio vero e autentico da vivere anche qui, 6000 km lontano da quelle terre: l’essere certi che stando insieme condividendo le nostre gioie e fortune, queste ultime davvero si moltiplicano!
Fabio
Entrare nella realtà africana per me è stato particolarmente complesso, io non ho esperienze in questa terra alle spalle e dunque tutto è stato una scoperta nuova. Quello che mi ha colpito maggiormente è stata l’esperienza dei missionari e delle missionarie presenti in Burundi.
Sono rimasto veramente incantato dalla loro testimonianza. Penso che il vivere così a stretto contatto con loro, condividere alcuni momenti della giornata e anche alcune attività abbia reso possibile questa conoscenza, direi forse meglio questa consapevolezza, ovvero la comprensione di quanto sia importante l’operato dei religiosi che vivono in quei luoghi. E comunque la loro presenza a fianco delle persone è la cosa che veramente più conta.
In tante occasioni ho commesso l’errore di lasciarmi andare a facili giudizi su quello che vedevo con i miei occhi, ma grazie a loro, grazie alle loro parole e alle loro confidenze, ho capito che giudicare così senza conoscere quello che c’è dietro alle cose porta solamente a costruire delle idee distorte della realtà. Certo, se vai e vedi, è come se tu avessi in mano un metro, senza millimetri, un metro che ti fornisce una misura forse anche precisa in alcuni casi, ma che non rileva le cose
piccole, quelle che ad occhio nudo non si vedono. I missionari ti insegnano che per stare in un certo ambiente bisogna allenare gli occhi, più che alla vista, allo sguardo, uno sguardo capace di cogliere non i metri ma i millimetri, perché dove regnano tante necessità, tante emergenze, anche i piccoli progressi, le conquiste raggiunte con la pazienza di chi vive là da tanti anni, hanno un
significato immenso.
Ho sperimentato, toccato con mano, una chiesa diversa da quella a cui sono abituato normalmente, una chiesa che sa farsi carico delle miserie, ma anche delle ricchezze dell’altro, una chiesa viva, attenta, una chiesa del grembiule, per utilizzare una celebre espressione di Don Tonino Bello.
La chiesta che ti porta a scoprire le sfaccettature più profonde e a volte anche più dolorose di un paese che noi abbiamo visitato attraverso un’esperienza necessariamente breve e dunque a tratti superficiale. Non è che si può pensare di conoscere in maniera esaustiva una storia, delle culture, dei modi di vita in un solo mese e per giunta in una realtà così diversa da dove viviamo di solito.
Ciononostante ci sono dei racconti che conserverò per sempre dentro al mio cuore.
Una persona che contrae il virus della malaria che si deve fare anche 5 o 6 ore a piedi per raggiungere il dispensario per farsi curare, e poi alla sera se ne deve fare altrettante per ritornare nella sua casa, oppure, le donne o gli uomini che fanno anche 30-35 km in un solo giorno per andare a prendere l’acqua o andare a vendere una gallina. E poi ci sono tutte le storie legate agli anni della guerra, storie tristi, a cui si contrappongono con forza tanti episodi di speranza, tanti gesti di umanità, gesti che forse mai si sapranno perche magari troppo piccoli o troppo insignificanti per creare una bella notizia che colpisca l’attenzione di un lettore o di un telespettatore.
Non si può visitare l’Africa. Non si può andare, guardare e tornare.
Occorre uno sforzo, occorre spogliarsi dei propri abiti e rimanere nudi per immergersi nelle acque fredde e spesso inospitali di un mondo veramente e piacevolmente sconosciuto. Solo così è possibile iniziare a capire. Bisogna porre attenzione a tutto ciò da cui si è circondati, paesaggi, profumi, tramonti, persone, e stare in silenzio lasciando che tutto lavori e produca sensazioni ed
emozioni.
Credo che da queste piccole cose inizi la condivisione.
Matteo.