Verso l’accaparramento (e le guerre) degli oceani
Fonte immagine Deep sea mining, cos’è la controversa corsa ai fondali oceanici a cui anche l’Italia vorrebbe partecipare – Open
Ufficio Policy Focsiv – Nell’ambito del tema dell’accaparramento di terre, che Focsiv segue da vari anni (vedi Land Grabbing e Agroecologia – Focsiv), riportiamo qui un articolo scritto da Andrea Stocchiero per ACCRI, sul rapporto tra land e water grabbing.
Il pianeta, la nostra casa comune, sta diventando sempre più piccolo. Oramai nessuna risorsa naturale rimane selvaggia, non toccata dalla specie umana. Soprattutto dagli interessi geoeconomici e geopolitici di Stati e grandi imprese. Dai tempi delle colonie, a quelli del neocolonialismo e della nuova competizione di Stati emergenti e imprese di settori innovativi, il cosiddetto land e water grabbing, accaparramento di terre ed acque, si è diffuso fino alle foreste primitive, ai ghiacciai della catena himalaiana, e ora anche agli oceani, ai suoi fondali profondi. La crescita economica senza limiti non ha confini naturali. Ma procedendo su questo sentiero depaupera l’ambiente avvicinando la fine della specie umana, oltre che di migliaia di specie vegetali e animali.
Ricordiamo che viene definito come water grabbing la situazione in cui attori pubblici o privati sono in grado di prendere il controllo o di riassegnare a proprio vantaggio le risorse idriche disponibili a spese degli utenti locali o degli ecosistemi, base di sussistenza degli utenti stessi. In sostanza, tutto ruota intorno al dominio sul potere decisionale rispetto all’utilizzo presente o futuro dell’acqua, che può condurre a cattiva gestione delle risorse idriche con conseguenti stress ecosistemici. Gli impatti socio-ecologici derivanti da tale trasformazione sono, quasi sempre, distribuiti in modo non uniforme e colpiscono spesso le popolazioni già povere ed emarginate, accrescendo le disuguaglianze.
In Italia è uscita qualche anno fa una pubblicazione curata da Emanuele Bompan e Marirosa Iannelli sul water grabbing e i conflitti associati, mentre altri articoli scientifici mostrano come siano tanti e crescenti gli interessi a controllare e sfruttare le risorse d’acqua, dai ghiacciai alle falde acquifere, dai fiumi ai mari, financo gli oceani. Le cosiddette intenzioni di investimento dei grandi poteri economici pubblici e privati comprendono lo sfruttamento di acqua compenetrata nella terra (chiamata green water), per cui l’accaparramento di terra è contemporaneamente anche di acqua; l’estrazione e l’uso di acqua per l’agricoltura, l’energia, l’industria, il turismo, il consumo umano; l’estrazione per il commercio di acqua e la speculazione finanziaria; le infrastrutture come dighe e bacini; la pesca e l’acquacoltura; e poi le miniere dalle piattaforme continentali marine fino ai fondali profondi degli oceani; infine la conservazione delle riserve marine. In particolare tra questa carrellata di intenzioni vi sono due fenomeni che sono ancora poco conosciuti.
Il primo riguarda l’espansione della proprietà nazionale delle piattaforme continentali marine. Ad esempio, il territorio degli Stati Uniti è “cresciuto” di quasi un milione di chilometri quadrati, circa tre volte la superficie dell’Italia, dall’inizio del 2024. Non c’è stata alcuna invasione in territori stranieri, né l’annessione di nazioni vicine o lontane: si tratta più semplicemente dell’aggiunta di aree offshore, ossia aree marine, che fanno parte della piattaforma continentale del grande Paese americano, dove si ha la certezza di grandi quantità di petrolio, gas naturale i minerali (si veda L’espansione silenziosa degli Usa: aggiunto un milione di kmq ai loro territori – Focus.it). A stabilire ciò è stato il Dipartimento di Stato Americano. Secondo il diritto internazionale e la convenzione di Montego Bay del 1982, allo stato costiero sono attribuiti i diritti di sfruttamento economico anche della piattaforma continentale. Qualora questo sia comprovato scientificamente. Gli Stati Uniti hanno così esteso le proprie acque e fondali nazionali per future estrazioni.
Il secondo fenomeno risiede oltre le piattaforme continentali, nelle acque e nei fondali internazionali degli oceani. Si è così arrivati anche ad una definizione di accaparramento con riferimento agli oceani. La definizione descrive azioni, politiche o iniziative che deprivano i piccoli pescatori e le comunità locali che vivono delle risorse marine, dispossessano le popolazioni vulnerabili delle terre costiere, e/o indeboliscono l’accesso che storicamente hanno avuto alle aree marine. Questa definizione è però di tipo antropocentrico, e cioè si guarda all’impatto che i grandi progetti di sfruttamento, soprattutto delle risorse ittiche, hanno sulle popolazioni più danneggiate. Non si tiene conto della natura in sé, dei diritti di fauna, flora.
I diritti e l’accesso alle risorse e agli spazi marini sono frequentemente riallocati attraverso iniziative governative e del settore privato per obiettivi di sviluppo, di gestione o di conservazione, con una varietà di risultati per i differenti settori della società. Ma questi diritti fanno sempre riferimento all’uomo e alle sue organizzazioni economiche, sociali, statuali. Una definizione più ampia e meno antropocentrica dovrebbe invece considerare anche i diritti della natura in una prospettiva biocentrica. Quindi non solo i pesci ma tutta la natura marina dovrebbe essere ritenuta portatrice del diritto alla vita. Anche le operazioni nei fondali marini più profondi intaccano e depredano la natura, e fanno parte dell’ocean grabbing.
Negli oceani sono così in atto esplorazioni per la possibile estrazione di noduli pluri-metallici, solfuri polimetallici e croste ferromanganiche ricche di cobalto. Le esplorazioni sono concesse dalla Autorità Internazionale per i fondali marini (International Seabed Authority), in blocchi di 100 chilometri quadrati (Exploration areas – International Seabed Authority). Questa Autorità è una organizzazione stabilita dalla Convezione ONU sulla legge del mare, che attualmente ha avviato una negoziazione tra gli Stati aderenti per definire le regole di estrazione negli oceani, in modo da assicurare la loro protezione.
La maggior parte degli Stati aderisce a questa organizzazione, tra di essi la Cina, ma non gli Stati Uniti. Ora che Trump ritira gli USA dall’Accordo di Parigi per il clima, c’è da chiedersi se il solipsismo americano ci condurrà a nuove guerre per l’accaparramento delle ultime risorse naturali anche negli oceani. A danno dell’oceano in sé, della biodiversità e meraviglia marina.