Vi insegno una parola nuova: МИР”, PACE
Guardo questo foglio bianco alla ricerca delle parole adatte per portarvi la mia testimonianza, ma forse la verità è che non esistono delle parole giuste per descrivere questo groviglio di emozioni e pensieri che si alternano in modo disorganizzato davanti a quanto sta accadendo in Ucraina. Il mio pensiero corre lontano, ma nemmeno così tanto, a poco più di 1350 km, a Ivan, a Kristina, a Liudmila e alle operatrici e ai bambini del centro Campanellino, ma anche a chi nei mesi scorsi ho incrociato per caso girando per Kitsman.
Ricordo il giorno del mio compleanno, quando il funzionario dell’ufficio dell’immigrazione mi ha chiamata solo per farmi gli auguri o Tania, la nonnina che lavora al mercato e che si è commossa quando son riuscita a farle capire che ero in Ucraina come volontaria in un centro per bambini disabili. Già, i bambini, proprio loro, che nelle ultime settimane non avevamo potuto vedere perché il centro era stato costretto a chiudere a causa dell’emergenza Covid, ma che finalmente ci stavamo preparando ad accogliere di nuovo. Chissà se ci sarebbe stata Julia, che non parla e vive nel suo mondo, ma che fin dalla prima volta che ci siamo viste mi ha riempita di baci e abbracci lasciando tutti di stucco, o Andrej, che mi stava aiutando ad imparare la lingua e si faceva un sacco di risate sentendomi sbagliare puntualmente le pronunce o quando sfrecciavamo con la carrozzina nel corridoio del centro. Purtroppo non lo saprò mai, perché proprio mentre i bambini rientravano al centro Campanellino, noi invece stavamo rientrando in Italia, richiamati nel momento in cui iniziavano ad essere sospesi i primi voli e molte ambasciate stavano invitando i loro cittadini a ritornare in patria.
“Magari è solo per una settimana o due, poi sicuramente la situazione si stabilizza e potremo rientrare”, ecco cosa pensavamo mentre preparavamo le valigie. L’ultima settimana è stata un alternarsi di emozioni molto intense, passavamo dalla speranza, allo sconforto in base alle notizie che leggevamo, mentre a Kitsman la vita procedeva serena e se chiedevi a qualcuno cosa pensava dell’esercito schierato sui confini ti diceva che era impossibile che attaccassero. “Putin è un cane che abbaia, ma mica morde” mi avevano detto due cartografi con cui ho chiacchierato un pomeriggio tra una tazza di tè, un bicchierino di vodka e dei cetriolini marinati, “ma se dovesse farlo combatteremo per difendere il nostro paese” aggiungevano. Sembrava di vivere in universi paralleli, in contrasto fra di loro: da un lato vivevamo momenti spensierati e sereni, fatti di quotidianità è imprevisti tragicomici, dall’altro bastava leggere le notizie per venire catapultati in uno scenario drammatico e spaventoso.
Ci dicono che dobbiamo rientrare il prima possibile e abbiamo giusto il tempo per dei saluti veloci a Liudmila, la direttrice del centro e la sua famiglia, ma siamo sicuri che sarà solo un arrivederci, mentre i nostri amici ci guardavano sorpresi e un po’ increduli per quanto stava accadendo. Ripenso a quel “До зустрічі, я люблю тебе” (“a presto, ti voglio bene”) sussurrato mentre abbracciavo Kristina ed Ivan prima di salire sul pulmino che ci avrebbe portato all’aeroporto. Ci salutiamo con gli occhi lucidi e il desiderio di rivederci presto. Guardo ancora una volte le colline brulle, i laghi ghiacciati e le casette pittoresche che disegnano il paesaggio Ucraino lungo la strada per Lviv. Non avrei mai pensato che poco più di una settimana dopo avremmo visto esplodere le bombe a Ivano Frankivs’k, la città dove abbiamo preso il pulmino.
Quella mattina non ci potevo credere, continuavo ad ascoltare le notizie, senza riuscire a fare altro se non piangere, con la consapevolezza che nulla sarebbe mai più stato come prima, che il mondo intero non sarebbe mai più stato lo stesso. Non ci potevo credere e in preda all’angoscia ho preso il cellulare per scrivere ad Amos, il mio collega che considero soprattutto un amico, ma resto lì, con il cellulare in mano, a guardare lo schermo, senza sapere cosa scrivere. Immagini sfilano nella mia mente in modo caotico, i volti delle persone a me care si alternano a quelle delle immagini che vengono ora diffuse dell’invasione dell’Ucraina, e prendono forma le mie paure peggiori. Non riesco a smettere di piangere, penso ai bambini che frequentavano il centro e alle loro famiglie, alle ragazze che ci lavorano e che vedevo ogni giorno, Daniela, Nelia, Alona Svetlana, Kristina, Masha, penso a Ivan e Kristina, che mi hanno accolta come se fossi una di famiglia.
Nei giorni successivi nel buio assordante della paura e dell’angoscia si fanno strada ricordi luminosi dei momenti felici vissuti a Kitsman, si fa strada il suono delle dei brindisi per tutte le volte che abbiamo festeggiato insieme, di Daniela che mi chiede “Come stai principessa?”, delle della risate che si è fatto Ivan quando gli abbiamo raccontato che avevamo mangiato per sbaglio i varenikj dolci condendoli coi funghi. In quell’oscurità dilaniante si fa strada il ricordo della gentilezza di Nelia che mi chiedeva sempre se avevo freddo a casa, dell’entusiasmo di Kristina nel propormi di fare due passi nella pausa pranzo e dell’ultimo pomeriggio al centro, quando Liudmila, mentre ritagliavamo un sacco di colombe di carta, ci ha detto “vi insegno una parola nuova: мир”, pace.
E proprio da quei ricordi che nel groviglio si fa strada il desiderio di fare qualcosa, di contrastare quel senso di impotenza, per far sentire a Kristina, Liudmila, Ivan, Daniela, Nelia e a tutte le persone che abbiamo incontrato in questi mesi che non sono da soli e che non ci dimentichiamo di loro. E allora si scende nelle piazze, che si colorano di celeste e giallo e dove risuonano canti popolari ucraini. Si passa un sacco di tempo al telefono per capire come organizzarsi, chi ha già avviato delle raccolte di finanziamenti e come fare per far arrivare i beni di prima necessità a Kitsman.
E quando ci hanno chiesto se volevamo continuare il nostro servizio civile, anche se ciò avrebbe significato svolgerlo da remoto, e se fossimo disponibili a spostarci a Ferrara nella sede di IBO Italia per aiutare a coordinare gli aiuti, non abbiamo dovuto pensarci un secondo, sapevamo già cos’era giusto fare. Mi ritengo una persona privilegiata, come molte in Italia e non solo: vivo al sicuro, sono in salute, ho avuto e continuo ad avere la possibilità di studiare, sono stata cresciuta sentendomi incoraggiata a perseguire i miei sogni e le mie ambizioni. Credo anche che la propria posizione di privilegio porti con sé una grande responsabilità, che è al tempo stesso anche un vero lusso: la libertà di poter scegliere!
E oggi più che mai scelgo di schierarmi a sostegno di coloro che sono le vittime di questo conflitto, coloro che sono costretti a fuggire dal proprio paese devastato dai bombardamenti, che hanno dovuto separarsi o che hanno perso un familiare, degli amici, una persona cara in questo conflitto. Perché questa è una guerra atroce, violenta, un massacro che divora i sogni, come ogni guerra, e che semina odio e rancore, che non cesseranno con un armistizio; ma questa guerra per me è ancora più spaventosa e angosciante perché a dover scappare nei rifugi antiaerei sono le persone a me care, alla quale voglio bene e che mi hanno accolta con pazienza e dolcezza, perché le infanzie spezzate dal mostro della guerra sono anche quelle dei bambini che ho incontrato al centro.
E anche se ci sembra di essere impotenti in questo momento, non dimentichiamo che tutti possiamo fare qualcosa nel nostro piccolo per sostenere le popolazioni colpite, perché nessuno è troppo piccolo per fare la differenza, perché se da soli è vero che ciò che facciamo è una goccia nell’oceano, insieme possiamo davvero creare un mare di solidarietà.
Agnese Di Giusto, Casco Bianco con IBO Italia in Ucraina, rientrata in Italia a causa della guerra.